PAOLO ULIAN
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Paolo Ulian 1990-2009
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INVENTARIO - 9.2011
Paolo Ulian
conversazione con Marco Romanelli
Milano, 2 maggio 2011
Due amici si incontrano a Milano, uno arriva da Massa Carrara, l'altro è nel suo studio. Si conoscono da 21 anni, ovvero da quando ne avevano rispettivamente 29 e 32. Da allora si sono confrontati molto spesso sebbene giocando ruoli diversi, il progettista e il critico.
Marco Romanelli Vorrei cominciare questa nostra conversazione in medias res, facendoti una domanda molto diretta sul tuo metodo di lavoro e in particolare sulla ricerca, che sempre applichi, di processi e materiali "differenti". Cosa c'è alla base di questo impulso? Quale percorso segui? Perché di fronte ad un incarico ti metti "a cercare" anziché prendere la matita e un foglio bianco di carta? E' veramente impossibile per te partire dalla forma?
Paolo Ulian Impossibile. Impossibile è la parola giusta. Non faccio apposta, ho bisogno di trovare una motivazione per poter cominciare un progetto. Devo almeno pensare di proporre qualcosa che ancora non esiste, che veicolerà "un'invenzione", per quanto piccola essa sia.
M.R. e quindi? niente foglio bianco e matita?
P.U. L'inizio del processo progettuale è per me un momento di grande sofferenza. Un momento lento e lunghissimo. Diciamo che prende almeno il 70% del tempo complessivo che dedicherò a quel progetto. Apparentemente è un tempo morto nel senso che non faccio nulla! Sto seduto nella mia stanza, e penso.
M.R. non disegni, non fai ricerche, non ritagli, non modelli? Stai lì fermo a non fare nulla? E se tuo figlio Elia entra cosa gli dici: "Papà sta lavorando!"?
P.U. La descrizione è realistica: non faccio nulla, aspetto che scatti qualcosa e intanto mi deprimo. Non ci crederai, ma, se non sono depresso, fortemente depresso, non ottengo nulla. Poi però, quando qualcosa scatta, quando trovo la partenza, allora sono rapidissimo: centinaia di schizzi e di piccoli modellini di carta in poche ore e uno stato di esaltazione quasi febbrile che cresce man mano che mi convinco di essere sulla strada giusta o almeno di aver trovato una strada. A questo punto arriva Giuseppe.
M.R. Come scusa?
P.U. arriva Beppe o, se non c'è fisicamente, almeno gli telefono e gli racconto tutto… che voglio fare una cosa in un certo modo, usando quel certo materiale e che dietro c'è una certa ragione. E Beppe mi fa da specchio. Non potrei farne a meno, soprattutto agli inizi questo momento di confronto è stato assolutamente fondamentale. Solo una volta compiuto questo passaggio di verifica posso stare tranquillo: quello a cui sto pensando "ha un senso", almeno per me, almeno per noi. D'altra parte lo sai benissimo che questo è il mio metodo: anche se non sei mio fratello, come Beppe, quante volte ho fatto lo stesso esercizio con te raccontandoti per filo e per segno un meta progetto o un progetto …. e il perché e il per come. In realtà non sospettavi che si trattasse di una verifica, per me importante.
M.R. Meglio così, la responsabilità di promuovere o bocciare un percorso altrui si addice solo in parte ad una telefonata tra amici.
Ma quindi, a parte queste necessità "di conferma", nella tua quotidianità in studio sei solo?
P.U. Solo davvero! Intanto devo dirti che "studio" non è veramente la parola giusta. Non mi sono mai potuto permettere uno studio, piuttosto una piccola stanza, nella casa dei miei genitori. A muro c'è un pannello a cui attacco tutto quello che incontro e che mi interessa.
M.R. immagini di progetti? riferimenti storici?
P.U. O no, pezzi! Pezzi raccolti dove capita. So che prima o poi mi torneranno utili, per una certa piega della lamiera, un certo foro, un certo spessore. Ma anche frammenti di corteccia, pezzi di marmo, rami o conchiglie. Stanno lì per anni e poi, un giorno improvvisamente, mentre mi tormento in quella "prima fase" di cui ti ho detto, li vedo in un modo del tutto diverso e allora parto.
M.R. ci sono degli oggetti "finiti" in mezzo a questa selva di frammenti? magari degli oggetti anonimi come vedevamo, con curiosità, nelle vetrine dello studio di Achille Castiglioni?
P.U. Sì, qualche strano oggetto di cui non saprei dirti le origini e pochissimi disegnati: come la formaggiera "Java" di Enzo Mari o il bicchiere di Matteo Ragni per Campari, due progetti giusti, due invenzioni.
M.R. E quindi, tornando al metodo, nessun assistente? Mai?
P.U. Ci ho provato: non ci riesco! Devo spiegare loro un sacco di cose, non sono mai soddisfatto di quello che fanno e poi come la mettiamo con il lungo periodo di "inattività" all'inizio di ogni progetto…. come potrei fare con un assistente?
M.R. Ma continuiamo per un momento sulla forma… Personalmente credo che l'estetica sia il modo con cui un designer può dire una parola sull'etica. Banalizzando: un mondo più bello sarà un giorno, necessariamente, un mondo più buono.
P.U. Credo che vogliamo arrivare allo stesso risultato, ma partiamo da due punti opposti: tu dall'estetica per arrivare all'etica, io dall'etica per arrivare all'estetica.
Posso farti un esempio tratto dal mio territorio: partire dall'estetica è come andare in vacanza a Forte dei Marmi ovvero essere sempre belli e felici e biondi e tutto va bene. A pochi chilometri di distanza da lì, dove abito io, c'è però una vacanza diversa, più normale, e allora non va sempre tutto bene, non sempre ci si diverte. Quella è la vita vera. E' su quella che voglio lavorare. Per questo la forma è, secondo me, solo la fine di un processo. E tra l'altro di quel processo è la parte che tra tutte mi interessa meno, anche se so benissimo che è obbligatorio arrivarci. Il processo in sé invece mi interessa molto perché lungo esso incontro il lavoro della gente, degli operai o degli artigiani. Voglio incidere sul lavoro, su quelle sequenze di azioni che hanno un preciso significato, che portano ad un risultato. Sequenze di azioni che magari, se ci si prova, è possibile modificare leggermente o impostare in un ordine diverso, per arrivare da un'altra parte o anche semplicemente per rendere più interessante il lavoro stesso. E poi, se ci pensi, solo analizzando il processo posso realmente occuparmi della ottimizzazione dei materiali, della minimizzazione degli scarti. Nella forma finale tutto questo é perduto: si potrebbe credere che non ci sia stato sforzo. L'oggetto appare "puro". E difficilmente a quel punto è consentita una riflessione sugli scarti.
M.R. Vent'anni fa, quando ci siamo conosciuti, avevi già questa "fissazione" per gli scarti. Tra l'altro in un momento di allegro e folle sperpero in cui praticamente nessuno si poneva il problema del rispetto delle risorse e nemmeno si aveva coscienza della loro limitatezza.
P.U. Non hai idea di come mi guardavano allora i produttori, e anche gli artigiani! Un folle che invece di cercare di fare cose nuove, frugava tra le cose già fatte. Il primo progetto che feci dopo il tirocinio milanese con Enzo Mari fu proprio sul recupero degli scarti delle lavorazioni in marmo (tu lo pubblicasti immediatamente in Domus!). Ai piedi delle Alpi Apuane, in ogni laboratorio più o meno grande si possono trovare centinaia e centinaia di pezzi identici, già parzialmente lavorati, che ogni giorno vengono gettati nelle discariche o, ben che vada, trasformati in "polvere". Il materiale avanzato infatti, indipendentemente dalla qualità della sua forma e dalla quantità prodotta, viene considerato "senza valore".
M.R. Ti sei mai chiesto cosa possa esserci dietro questa tua, per altro ammirevole, "propensione"?
P.U. L'ho capito con il tempo, ma l'ho capito. C'è mia madre dietro tutto ciò. A casa nostra non si producevano praticamente rifiuti. Tutto trovava un altro uso: dai resti organici nell'orto alle vecchie cose che recuperavano molte e diverse vite. Mi ricordo un paio di pantofole che erano state fatte assemblando altre pantofole e poi ancora altre fino a diventare una sorta di pantofola gigante. Oppure gli occhiali: lenti in sequenza, perché mia mamma, quando la vista le calava, non faceva altro che sovrapporre alle lenti iniziali un altro paio di lenti e così via. Sono cresciuto vedendo creare nuove situazioni a partire dagli scarti. Mi piacerebbe un giorno raccogliere tutti questi oggetti "inventati" da mia madre.
M.R. Eppure nonostante questa "progettazione sugli oggetti" che ti circondava, quando è stato il momento ti sei iscritto all'Accademia. A pittura tra l'altro! Paolo Ulian pittore?
P.U. No, non mi sono mai sentito un pittore, ma allora non sapevo cosa fosse il design. In un certo senso, tra le persone comuni, non lo sapeva nessuno. Si fa fatica a crederci, però era così.
M.R. ma dipingevi?
P.U. Tracciavo certi segni, con la matita o con la biro. Pensa che Getulio Alviani, in Accademia, ci ha fatto fare una cosa simile per un anno intero: righe verticali e orizzontali parallele, a mano libera, con la china, per mesi e mesi. Solo ogni tanto era concesso un piccolo scarto, magari tracciare i segni paralleli in diagonale. Allora non capivo, ma quei disegni li ho tenuti e, anni dopo, mi è apparso chiaro che mi erano serviti. Quando Mari racconta dell'importanza della scrittura a mano come fase propedeutica al progetto, ritrovo lo stesso concetto.
M.R. comunque l'Accademia non era la tua strada?
P.U. Al terzo anno sono andato via, a Firenze, all'ISIA. Lì facevamo un sacco di cose pratiche. A me piacciono le cose pratiche, sono bravissimo a farle. Si finiva sempre tardissimo, la notte, di fare disegni e modellini che la mattina portavamo a scuola e poi di nuovo altri modelli e altri disegni, ogni giorno. Qualche volta scappavo dalle mie lezioni ed andavo ad ascoltare Enzo Mari che parlava ai più grandi. E poi l'anno dopo l'ho avuto come insegnante! Ci faceva cercare oggetti perfetti: una falce, una botte, un mattone, un boomerang. Voleva fare una mostra che attraverso questi oggetti dimostrasse il valore assoluto della bellezza. Mostra che poi si fece, ma quel lavoro fu la nostra prova d'esame. Io ero anche il "fotografo ufficiale" di tutti quegli archetipi (ero davvero capace, allora, di fotografare). Insomma non progettavamo nulla in quel corso, ma ci guardavamo molto intorno.
Poi però ho fatto il marinaio: per un anno e mezzo! Appena tornato mi ha chiamato proprio Mari, si ricordava delle mie foto e mi ha chiesto se volevo andare in studio da lui, a Milano. Ho chiuso il telefono e ho detto "Cribbio: ecco è successo!". E così sono partito, ma a Milano stavo male. Mari spesso era durissimo con me, a volte a ragione, altre apparentemente senza motivo. Alla fine ci sono stato un anno e mezzo.
M.R. E a Milano hai frequentato l'ambiente del design?
P.U. No. Ne ero abbastanza intimidito. Ad esempio le giornaliste mi sembravano "pericolose". Ero convinto che tutti ne sapessero più di me e preferivo frequentare solo pochi amici nelle rare ore di libertà. Così sono tornato a casa.
M.R. Possiamo quindi dire che Mari è stato il tuo maestro?
P.U. L' incontro con Mari è stato di fondamentale importanza per me, imprescindibili rimangono i suoi principi e alcuni suoi progetti "capolavoro". Ha rappresentato per me un modello di riferimento e in questo senso lo considero un mio maestro.
M.R. cercavi forse un padre? In fondo, prima, mi hai parlato solo di tua madre.
P.U. Ma figurati, mio padre è stato molto presente per me. Era un disegnatore. Di grandi impianti, di cisterne. Mi ricordo il tecnigrafo, mi sembrava enorme. E quei disegni… su lucido, con la china: grandissimi, bellissimi, pieni di scritte ordinatissime, fatte a mano. Papà metteva in ordine il mondo e mamma lo salvava o meglio voleva passarci dentro lasciando la minima traccia possibile. Anche a me non interessa lasciare tracce. Non progetto per essere ricordato, ma per ri-organizzare certe cose.
M.R. Forse merita generalizzare un momento la tua osservazione sui "maestri" per vedere come in fondo tutti questi designer italiani che abbiamo avuto la fortuna di conoscere, con cui abbiamo lavorato e che vengono oggi denominati "la generazione dei maestri" non hanno in realtà mai voluto avere dei veri discepoli. Adesso che sono passati gli anni scopro, sempre più spesso, con stupore, che le biografie di molti nostri colleghi sono piene di riferimenti a Munari o a Castiglioni, a Magistretti o appunto a Mari, ma in realtà noi che li abbiamo frequentati sappiamo benissimo che i loro studi non avevano discepoli e che la loro attività era sostanzialmente ego riferita. Detto questo però, sotto un altro punto di vista, sono stati dei maestri: "maestri loro malgrado", maestri grazie alle opere che abbiamo guardato e agli scritti cui ci siamo abbeverati.
P.U. A questo proposito vorrei citarti un altro nome, qualcuno che solo da pochi anni ho capito quanto sia stato importante per me: Angelo Mangiarotti. Se penso a certe sue sculture fatte semplicemente tagliando il blocco di pietra con il filo e poi disassando leggermente le varie parti… oppure a quella colonna di 11 metri costruita impilando le "fette" tagliate da un unico blocco. In questi procedimenti mi ritrovo.
M.R. E chi altro ancora vorresti ricordare?
P.U. Castiglioni era fantastico, come pure Magistretti. Ammiro molto anche Paolo Rizzatto e Alberto Meda: precisione e perfezione. Tra i più giovani Lorenzo Damiani: un amico bravissimo!
M.R. e Mari lo vedi ancora?
P.U. certo, non molto spesso, ma capita. Gli faccio vedere le mie cose (è stato recentemente curatore di una mia mostra): di solito non è molto generoso nei giudizi. Mi boccia quasi tutto!
M.R. ad esempio?
P.U. Ad esempio il vaso in terracotta che se si può rompere secondo "linee fustellate", così se cade ne salvi delle parti. Mi ha detto… ma io lo avrei fatto pesantissimo perché non potesse rompersi. Non voglio che si rompa!
M.R. Conservi a casa tua degli oggetti dei personaggi che hai citato?
P.U. Io non ho una casa "da designer" e comunque non è casa mia, è casa nostra. Di solito compro cose semplici che mi servono davvero e che devono costare poco. Poi c'è pieno di miei prototipi: i prototipi di tutto quello che non sono riuscito a far produrre da nessuno. Certo ho delle cose di Mari, ad esempio alcuni vetri per Danese perché ci avevo lavorato anche io, e poi ho una lampada bellissima di Rizzatto con un tessuto arancione che fa una luce morbida e il lampadario di Ingo Maurer con i foglietti: ogni anno facciamo il gioco di cambiarli tutti.
M.R. Hai citato la grande quantità di prototipi restati tali. Effettivamente, preparando questo nostro incontro e riguardando tutti i disegni che mi hai mandato negli anni e rileggendo tutte le lettere che mi hai scritto, ho ritrovato tante cose che avevo dimenticato. Ad esempio, se ricordo bene, poco dopo la faccenda del recupero del marmo, ci fu una lunga esperienza con Ceccotti sugli scarti del legno massello.
P.U. Erano venuti da me proprio perché avevano visto la pubblicazione dei marmi. Ci lavorai quasi un anno. C'erano enormi quantità di bellissimi pezzi già lavorati, semilavorati "scultorei". Provai ad assemblarli a due a due creando piccoli oggetti con funzione di complemento d'arredo. Il risultato doveva essere una sorta di "catalogo al negativo" (o al positivo?) del catalogo ufficiale dell'azienda dove ogni oggetto da me proposto corrispondeva biunivocamente ad un mobile in produzione. Non se ne fece nulla.
M.R. Mi ricordo anche un prototipo per Cassina: un bellissimo scrittoio home-office con due ante di legno e poi un corpo avvolgente in tessuto elastico tirato su una intelaiatura: un concetto simile a cose che si vedono oggi, quindici anni dopo. Tra l'altro quello sarebbe stato uno dei tuoi oggetti più grandi: credi in realtà di essere più portato per le cose piccole?
P.U. Chiedimi una cosa grandissima, e te la farò! Ho realizzato tante cose piccole perché lavoravo per le mostre, per lo straordinario Opos ad esempio, ma i prototipi bisognava farseli e pagarseli e poi anche trasportarli. Ecco perché spesso sono piccoli! Certo, fatta questa premessa, devo ammettere che c'è una qualche sintonia tra le piccole cose e il mio modo di vedere il mondo.
M.R. La lettura che viene data più comunemente dei tuoi progetti è minimale. Viceversa io riscontro in essi segni sculturali, espressionistici, a volte persino etnici. Penso al 1995, ad un attaccapanni non prodotto ove due pali di legno si aprivano mostrando un interno ondulato, quasi totemico. Oppure a quello sgabello "a sella " che presentasti da Opos nel 1993 o ancora ad un pezzo recentissimo, il tavolo in marmo "Concentrico" per Le Fablier.
P.U. Nell'attaccapanni avevo unito due di quei pali che si usano per fissare le coperture di ondulux… ecco spiegata la sagoma. Nello sgabello lavoravo con fustelle di cartone e nell'ultimo pezzo che tu citi parto dalle marmette per pavimenti, quindi da qualcosa di già prodotto, e ritaglio da esse il maggior numero possibile di anelli concentrici, senza produrre alcuno scarto. In questo modo utilizzo un materiale esistente: non devo aggiungere nulla!
M.R. L'immagine finale però è estremamente ricca.
P.U. Questo mi spaventa: ho paura che le persone si soffermino a guardare la forma e non valutino i dati di partenza, non comprendano tutti "i perché" di un simile pezzo. Non vorrei proprio che lo giudicassero un intervento "fine a se stesso", di pura decorazione. E' possibile che a volte io arrivi a strutture decorative, ma ciò non è mai voluto in partenza, è solo la conseguenza naturale di un preciso processo di lavorazione.
Invece per quanto dicevi del minimalismo: no, non credo di essere un minimalista, e la ragione è molto semplice: non sono in alcun modo un formalista. Non posso trovare una giustificazione in un principio (qualsiasi principio), non parto mai da uno schema (nemmeno da quello della "semplificazione"), ma da una situazione reale, che quindi possiede delle logiche interne. Su queste basi ognuno dei miei progetti può essere diverso dall'altro.
M.R. Un'altra etichetta difficile da toglierti di dosso è quella del "giovane designer".
P.U. Beh, un po' è colpa mia. Non ho le physique du rôle: a 30 anni ne dimostravo 15, adesso che ne compio cinquanta sembro ancora un ragazzino. Avrei dovuto essere più grosso, più imponente. Allora avrei "fatto paura" a tutti!
M.R. Hai citato la mostra che la Triennale di Milano ti ha dedicato nel 2010 nell'ambito di un'analisi sul giovane design italiano. Avevi 49 anni!.
P.U. Mi chiamano per cose sul "giovane design", poi, quando guardano la data di nascita pensano di aver sbagliato "Paolo Ulian": non posso essere io, perché io sono per loro, sempre e comunque, un giovane designer.
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ARCHIMAGAZINE - 9.2011
Conversando Con Paolo Ulian - di Ivana Raggi
Ammetto che questo è uno degli incontri che desideravo di fare da un po'… Dei progetti di Paolo Ulian mi colpisce la semplicità del messaggio finale che però, da quello che ho letto e osservato, proviene da dei processi di maturazione ben ponderati, pensati, che spesso si concludono con "un colpo di genio" finale. Per lui niente va sprecato e ci riesce facendolo molto bene.
A questa brevissima premessa non aggiungerei altro.
Paolo, benvenuto e grazie per avere accolto questo invito. Mi piacerebbe che facesse una sua presentazione e che mi raccontasse un episodio singolare che l'abbia maggiormente convinta a diventare un designer.
Non sono un vero e proprio designer industriale perché i miei progetti entrati in produzione sono veramente pochi, non sono un designer che si autoproduce, anche se qualche autoedizione l'ho realizzata. Non sono nemmeno un designer-artigiano anche se la maggior parte degli oggetti che ho ideato li ho realizzati con le mie mani. Probabilmente sono un po' tutte queste tre figure messe insieme che interagiscono e si rafforzano a vicenda. Una linea comune a queste tre caratteristiche è senz'altro una certa attenzione alle problematiche e le contraddizioni del design, alla consapevolezza dei disastri ambientali, ma anche, culturali e sociali, ai quali un progettista può rendersi partecipe se non ha una sua chiara etica a cui riferirsi. Il design per me è un mezzo di comunicazione dei propri valori e principi, un linguaggio basato sulla fisicità delle cose con cui esprimere i propri pensieri e le idee a cui teniamo di più.
L'episodio che mi ha convinto a intraprendere la strada del design è stata una telefonata di Enzo Mari in un momento delicato della mia vita, mi invitava ad andare a lavorare nel suo studio pochi mesi dopo essermi diplomato, mentre cercavo di guadagnarmi da vivere realizzando lavori di grafica e di fotografia. Ero in una sorta di limbo in cui l'entusiasmo e la passione per il design si stavano affievolendo e la possibilità di andare a lavorare con Mari era la cosa più bella che mi potesse capitare in quel momento.
Nell' aprile 2009 allo spazio Careof-Viafarini, si è tenuta una mostra dedicata a suoi lavori che è stata, mi corregga se sbaglio, divisa in due aree che contengono ognuna degli insiemi di ricerche così definiti: Progettare Tracce, Rispettare la Materia, Accortezze Costruttive, Aggiungere Funzioni, Buona Forma, Osservare Comportamenti, Sentire Etico. Sono dei processi progettuali che hanno una base filosofica, ce li descriverebbe?
Le due aree a cui si riferisce non volevano rappresentare due aree tematiche della mia ricerca, erano solo una delimitazione fisica derivata dalla suddivisione dello spazio espositivo. Mentre gli insiemi di ricerca che ha citato sono definizioni che ha redatto Beppe Finessi (il curatore) in occasione della mia mostra personale ed erano un riuscito tentativo di riordinare le diverse caratteristiche dei miei risultati progettuali prodotti nell'arco di venti anni.
Progettare tracce si riferisce all'aspetto "decorativo" che alcuni oggetti acquisiscono in seguito a un'operazione concettuale. Il decoro come una conseguenza e non come uno scopo, come una traccia lasciata da un' atteggiamento (i colpi di martello sulla superficie dei tavolini-seduta Pin necessari per piantarli nel terreno diventano un decoro inconsapevole e in divenire) o dagli strumenti utilizzati (i diversi decori dei vasi Emerso sono delle tracce lasciate sulla superficie dai vari utensili usati)
Rispettare la materia riguarda tutti quei progetti in cui c'è un'attenzione ai temi della sostenibilità e al corretto uso dei materiali, mentre in Accortezze costruttive sono raccolti i progetti risolti con una soluzione tecnica di tipo ingegneristico come la lampada Palombella, l'appendiabiti Flex o la libreria Vincastro . In Aggiungere funzioni ci sono gli oggetti con due o più funzioni come il tavolino-panca Cabriolet o il coltello Pane e salame o il lavello Tandem. In Buona forma sono raccolti gli oggetti non facilmente definibili, quelli particolarmente riusciti nel rapporto tra funzione ed estetica. Osservare comportamenti è il tema più ricorrente nella mia ricerca: istituzionalizzare alcuni comportamenti informali delle persone per renderli visibili attraverso la matericità delle cose. Sentire etico è riferito al rapporto molto forte tra forma e significato, a provocazioni come la bottiglia di vino incartata con un foglio di giornale su cui compare la notizia La folle guerra di Bush o il fiammifero a due teste infiammanti che ci fa riflettere sull'importanza di avere approcci diversi con le cose, a partire dai più piccoli oggetti e dai gesti più banali.
Cito alcuni dei tuoi progetti: Vincastro, Aleph Driade (1995); Cabriolet Fontana Arte (2001),Primo Premio "Design Report" nel 2000); Up, BBB Bonacina (2001); Bowl, Fontana Arte (2003); Bird-feeder, Droog Design (2003); Mat-walk, Droog Design (2004); Panca Estensibile, OfficinaNove (2009); Emerso, -Attese Edizioni (2009); Carboard Vase, Produzione Skitsch (2009)… Sono pochi dei tanti: avrebbe voglia di soffermarsi a parlare su qualcuno di questi o su altri non riportati?
Alcuni di questi li ho già citati nella risposta precedente, potrei parlarti dei vasi Cardboard che sono uno dei miei progetti preferiti. Questi vasi sono nati osservando come un imballo in cartone goffrato per bottiglie potesse assumere infinite forme attraverso semplici interventi di manipolazione. Così, seguendo questa sua naturale propensione, ho realizzato una serie di forme diverse di vasi in cartone e le ho fatte riprodurre in ceramica per il marchio Skitsch. Successivamente, parlando di questi vasi con Enzo Mari, è nata una variante, non più in ceramica ma in cartone, all'interno del tubolare è bastato aggiungere una mezza bottiglia di plastica per contenere l'acqua ottenendo così dei bellissimi vasi in cartone colorato dalla forma personalizzabile. Qualche mese fa ho passato questa idea ai laboratori per bambini della Triennale di Milano e adesso tanti bambini possono dare forma al loro vaso, decorarlo liberamente e portarlo a casa come dono alla loro mamma. Oltre che a essere stata per me una bella esperienza a livello umano è stata anche una particolare soddisfazione, niente produzione e vendita, ma solo pura partecipazione e condivisione del "saper fare" con i bambini che hanno delle capacità creative veramente sorprendenti.
Il suo design è puntuale e non butta via niente. Cosa la infastidirebbe, del fare progettuale che la circonda, a tal punto da farla arrabbiare e indurla a gettare via qualcosa?
Ci sono molti aspetti del design attuale che mi infastidiscono, ma ce n'è uno in particolare che non digerisco ed é quel genere di progetti che si spacciano come design di avanguardia e che sono contraddistinti da forme fantascientifiche e da colori fluo. Di fatto non sono altro che una forma di design autoreferenziale molto attento alle tendenze del momento, tutta apparenza e nessun significato, solo pura spazzatura.
Come vive il rapporto con le aziende, con gli altri designers e come, invece, l'autoedizione?
C'è qualcuno insieme al quale le piacerebbe lavorare e perché?
Tutto dipende dalle persone con cui si entra in contatto, se a capo delle aziende ci sono persone interessanti, aperte e amichevoli, allora è possibile che si instauri anche un buon rapporto di lavoro e si possano raggiungere dei risultati concreti, altrimenti tutto si perde nel nulla. Tra i designers della mia generazione c'è n'è qualcuno che ammiro molto e altri un po' meno, ma in generale siamo tutti molto solidali e buoni amici. Però non so se sarei capace di lavorare a quattro mani con uno di loro, ognuno ha le sue peculiarità e non credo che sia facile farle collimare per arrivare a dei buoni risultati comuni.
Riguardo all'autoedizione posso dire che è un'attività che mi piace molto e che vorrei perseguire sempre di più anche se fino ad oggi non posso certo fregiarmi di aver fatto molto in questa direzione. Mi piace perché è un modo di progettare più completo, è un cerchio che si chiude. Il designer nel gestire anche la produzione può apprendere segreti e informazioni preziose direttamente nei luoghi della produzione e questo porta sicuramente a stimolare positivamente anche le sue potenzialità progettuali. Poi c'è un altro aspetto positivo rispetto al rapporto con le aziende, quello di avere una maggiore libertà espressiva e di giudizio, tutto ruota intorno alle scelte del designer nel bene e nel male anche se questo può significare maggiori responsabilità e maggiori rischi di insuccesso.
Beppe Finessi l'ha definita "un nuovo Maestro". Qual è il ruolo dei Maestri nella società attuale? Mi spiego meglio: oggi hanno delle "responsabilità" differenti in relazione al periodo storico che è sicuramente cambiato rispetto al passato?
Non mi sento un nuovo Maestro, ho ancora tutto da imparare dai Maestri, quelli veri, staremo a vedere tra qualche anno. Per il momento le posso dire quali sono le responsabilità che mi sento di avere come designer nei confronti della nostra società.
La prima cosa che ho capito da quando ho iniziato questo percorso è proprio la responsabilità pesante che i designers industriali hanno nei confronti dell'ambiente e della società in generale, disegnare un' oggetto in plastica, per esempio non è solo dare una bella forma o caricarlo di un certo significato ma anche partecipare consapevolmente e in modo determinante al disastro ambientale del nostro pianeta. È questa la preoccupazione maggiore che ogni designer dovrebbe avere, ma che ancora oggi è quasi totalmente ignorata perché si continua a dare più peso al bene privato che a quello pubblico.
Dovrebbe esistere una sorta di regola etica del designer e dell'imprenditore in cui siano stabiliti i limiti oltre i quali non è concesso andare, oltre i quali il designer o l'imprenditore siano considerati dei fuorilegge (mi rendo conto che qui sono già nell'ambito dell'utopia pura).
Paolo, cos'è l'etica?… E la retorica?
L'etica per me è rispettare delle regole sociali, avere come priorità il bene comune sacrificando quello privato. Il design dovrebbe essere considerato più una missione che una professione, più un'opportunità per esprimere dei sani principi piuttosto che una mera opportunità economica per chi lo pratica. Ma evidentemente la realtà è tutt'altra cosa.
La retorica io la considero come uno strumento che consente di ottenere più risultati con meno sforzi, una tecnica per arrivare diritti all'obiettivo che però spersonalizza la ricerca, la incanala semplicemente in percorsi sicuri e conosciuti. È una tecnica la cui logica non prevede la sperimentazione, il procedere per tentativi e per prove, è una tecnica che non conduce quasi mai nei territori puri dell'innovazione e della scoperta.
Nel salutarci: un suo augurio per il futuro?
Mi auguro l'assestamento o il superamento di questa economia globalizzata che per il momento mi pare che abbia creato solo grandi squilibri tra le varie aree geografiche e prodotto nuove logiche di mercato basate più sull'indiscriminato sfruttamento della forza lavoro che sul rispetto e la dignità delle persone.
11.11 Note biografiche di Paolo Ulian
Paolo Ulian, classe 1961, frequenta per tre anni l'Accademia di Belle Arti di Carrara, si trasferisce poi a Firenze per iscriversi all'Isia. Nel 1990 discute la sua tesi realizzando il progetto di un paravento in cartone che riscuote subito successo. Alla fine del 1990 é a Milano per lavorare con Enzo Mari. Collabora con lui fino al 1992 e poi ritorna in Toscana.
In quel periodo dedica molto tempo alla sperimentazione per poi partecipare a numerose mostre collettive e in particolar modo a quelle organizzate dallo Spazio Opos a Milano.
Dal 1995 al 2000 alcune di queste sperimentazioni si traducono poi in prodotti come la libreria Vincastro per Driade o la lampada Bartolo per Opposite.
Collabora con Droog Design e con alcune aziende italiane come Driade, Fontana Arte, Luminara, Zani e Zani, BBB Bonacina, Coop, Azzurra Ceramiche, Skitsch, Officinanove.
Tra i progetti citiamo:
Vincastro, Aleph-Driade (1995); Armonica, Bieffeplast (1995); Bartolo, Opposite light (1998); Dune, Opposite (1998); Cornice d'ombra, Fondazione Danese–Vodoz (1998); Vario, Pane e salame, Zani & Zani (1999); Centrofrutta, Seccose (2000); Progetti (2001); Tagliapizza, Zani & Zani (2001); Cabriolet, Fontana Arte (2001); Print, Sensi &C (2001); Up, BBB Emmebonacina (2001); Fluxus, Luminara (2001); Bird- feeder, Drog Design (2003); Drinkable Watercard, Mostra Acqua-Opos (2003); Finger biscuit, Ferrero (2003); Bowl, Fontana Arte (2003); Mat-Walk, Droog Design (2004); Family, Zani & Zani (2004); Pet bed, Droog Design (2004); Lucy-Brill, Zani & Zani (2004); Pin, mostra The shape of value (2006); Una seconda vita, Attese Edizione (2006); Side shadow, Ceramiche Ragno (2007); Waterlight, Luminara (2007); Anemone, autoedizione (2008); Vaso vago, Up Group (2008); Tandem, Azzurra Ceramiche (2008); Stripe, L'abbate (2008); Guanto toglipelucchi, Coop (2008); Emerso, vasi in ceramica, Attese Edizione (2009); Cordboard Vase, Skitsch (2009); Vaso Rosae, Attese Edizione (2009); Piatti e pentole in terracotta, Edizione per la Biennale Artigianato Sardo (2009); Virgola, Zani & Zani (2009).
I suoi lavori sono pubblicati sulle più importanti riviste di architettura e design come Interni, Domus, Abitare, Intramuros, Wired, Wohnen, MD.
Tra le esposizioni a lui dedicate:
Paolo Ulian 1990-2009 (2009) presso gli spazi di Careof-Viafarini alla Fabbrica del Vapore a Milano a cura di Beppe Finessi, Paolo Ulian-"Tra gioco e discarica"(2010), curata da Enzo Mari, allestita al Triennale Design Museum di Milano; Il design di Paolo Ulian-il senso delle cose (2010) F65, Marina di Carrara.
Tra i riconoscimenti conferitigli ricordiamo:
il premio Design for Europe (1990) in Belgio per il Paravento in cartone "Pinocchio"; il premio Design Report (2000) per l'insieme degli oggetti presentati: il tavolino/ panchetta Cabriolet, L'appendiabiti/svuotatasche Bowl, La lampada Palombella; il Premio Dedalus (2002) per la Ricerca Progettuale; IF Award 2009 per Tandem; Design Plus Award 2009 per Guanto toglipelucchi.
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SCUOLA POLITECNICA DI VICENZA - 22.12.2010
Quando nasce la passione per il design?
La passione per costruire e inventare cose mi accompagna da parecchio tempo, da quando ero bambino anche se a quell' epoca non sapevo che quello che facevo si chiamava design. Poi a 23 anni mi sono iscritto all'Isia di Firenze e li' ho capito che quello che amavo fare da bambino si poteva continuare a farlo anche da adulti e la cosa mi esaltava non poco.
Enzo Mari, che ruolo avuto per la Sua crescita professionale? Quale ricordo legato a Mari non potrà dimenticare?
Direi decisamente di si', Mari teneva il corso di progettazione dell'ultimo anno all'Isia di Firenze ed è stato come una folgorazione per me. Diceva esattamente quello che pensavo anch'io sul design e non solo, anche se inizialmente ne ero intimorito per quel suo modo di esprimersi cosi diretto e schietto. Vorrei raccontare un paio di ricordi legati a Mari, uno bello e uno meno, un po' come é lui, spesso meraviglioso e a volte scontroso. Quello bello è molto recente ed è la totale dedizione e generosità con cui ha seguito la preparazione della mia mostra alla Triennale lo scorso anno, quasi due mesi di lavoro impiegati a risolvere anche il più piccolo dettaglio della mostra, dell'allestimento e del catalogo. E' stato il più bel regalo che potesse farmi e glie ne sono infinitamente grato. L'altro ricordo è legato al periodo che ho passato nel suo studio subito dopo il diploma, dovevo approntare un modello di una sedia da presentare a un'azienda e quando arrivarono i responsabili per visionarlo, Mari si accorse che lo schienale era di qualche millimetro spostato in avanti, scoppiò il finimondo . Fu una giornata indimenticabile.
Riciclo dei materiali e utilizzo dei materiali riciclati, minimizzazione dello scarto e realizzazione di un prodotto eco-sostenibile...quando nasce in lei questa sensibilità? In che modo influenza il suo metodo progettuale?
Penso che questo aspetto, tra le altre cose, sia in parte legato alla mia esperienza familiare e in parte agli insegnamenti di grandi maestri come Enzo Mari, Achille Castiglioni, Angelo Mangiarotti . Mia madre è stata ed è tutt'ora per me un grande riferimento per quanto riguarda i valori etico/ecologici , è una vera campionessa nell'evitare sprechi di qualsiasi genere, direi che è proprio una fondamentalista in questo senso. Mari, Castiglioni e Mangiarotti mi hanno influenzato in modo altrettanto forte, molti loro progetti sono dei veri e propri manifesti di sostenibilità concepiti con quaranta anni di anticipo, è incredibile quanto siano attuali ancora oggi. Riguardo al mio modo di operare direi che in buona parte è impostato sul tema del riciclo e del recupero perchè lo ritengo un' approccio indispensabile da sempre, un modo per sentirmi in pace con me stesso e per cercare di essere in qualche modo utile agli altri. Ultimamente mi sono concentrato maggiormente sul "progettare in funzione dello scarto" inserendo nella fase progettuale anche il controllo formale del pezzo di risulta prodotto da una determinata lavorazione. In questo modo è possibile definire e creare una funzione autonoma dello scarto o anche una sua funzione integrata all'oggetto dal quale deriva ( vedi la ciotola in terracotta "una seconda vita" , il portafrutta in vetro "Holes", il tavolino Honeycomb, il tavolino in marmo "Without waste" o ancora il vaso "Vago" ). Credo che in un momento storico cosi' caratterizzato dalla non cultura consumistica, sia importante lavorare in questa direzione non solo evitare sprechi di materia prima e di energia, ma soprattutto per cercare di indicare una possibile strada da seguire con soluzioni e suggerimenti concreti.
Quest'anno la Triennale le ha dedicato una mostra personale intitolata "Paolo Ulian. Tra gioco e discarica", perché la scelta di questo titolo, l'unione di due parole che apparentemente possono sembrare così lontane tra di loro?
Il titolo della mostra è opera di Enzo Mari, ha sintetizzato in due parole il mio modo di progettare che oscilla spesso tra l'ironia del gioco inventivo e l'impegno etico del progettare sostenibile del quale la discarica è la metafora perfetta.
L'esposizione itinerante "Cambiare il mondo con un vaso di fiori" della IV Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea il 25 settembre è approdata a Camogli (GE) dove rimarrà aperta fino al 9 gennaio 2011 per poi spostarsi in Svizzera; tra le opere esposte anche il Suo Vaso Rosae, come è nato questo prodotto? In che modo viene rivisto e ripensato il classico vaso?
Era già un po' di tempo che avevo in mente un vaso da fiori in terracotta da realizzare con un foglio di argilla arrotolato su se stesso più volte in modo da formare contenitori di dimensioni diverse all'interno dello stesso vaso. Ma non ero affatto sicuro che si potesse realizzare. A quel punto è stato determinante l'aiuto di Roberto Costantini ( il direttore della Biennale della ceramica di Albissola ) che mi ha indirizzato nel laboratorio di Ylli Placa, uno dei migliori ceramisti di Albissola . L'oggetto, per nulla facile da realizzare, nelle sue mani si è concretizzato in pochi giorni ed era esattamente come mi aspettavo che fosse.
Quale progetto l'ha "divertita" di più? Quale progetto le ha dato maggiore soddisfazione?
Quello che mi ha divertito di più sicuramente il biscotto da dito da immergere nella nutella fatto per la mostra Pappilan a Bolzano e poi successivamente acquistato dalla Ferrero. Quello che mi ha dato più soddisfazione è il vaso Cardboard, realizzato con un semplice imballo per bottiglie in cartone goffrato. Il progetto non è ancora in produzione ( mentre lo è la versione in ceramica fatta per il marchio Skitsch) ma la cosa che mi fa enormemente piacere è che l'operazione di formatura e decorazione del vaso è stata adottata dai laboratori per bambini della Triennale di Milano. Cosi' oggi molti bambini delle scuole si divertono e sviluppano la propria manualità anche grazie a questo piccolo vaso di cartone.
In questo momento a cosa sta lavorando?
Ad alcune cose, però preferirei non parlarne ancora.
Dal suo punto di vista che qualità deve possedere un giovane designer?
Prima di tutto ci vuole una buona resistenza alle delusioni e alle difficoltà che questo lavoro riserva. Solo chi ha una passione smisurata per il progetto, dopo la peggiore delle delusioni o delle umiliazioni riesce sempre a rialzarsi e ripartire. Chiaramente poi sono indispensabili tutta una serie di altre qualità, senza le quali non si va lontano. E' importante avere un carattere curioso e indagatore, essere un rompiscatole che chiede sempre il perché. Quindi essere un buon osservatore, saper guardare oltre la superficie delle cose per comprenderne il senso più profondo. E poi saper ascoltare ma anche saper convincere gli altri della bontà delle proprie ragioni. Bisogna essere un sognatore e un eterno insoddisfatto del proprio presente, essere una sorta di emarginato che legge il mondo e la società degli uomini da un'angolazione diversa per poter dare delle risposte diverse.
Ultima domanda, un consiglio per i giovani che vogliono intraprendere questa strada.
Seguite solo il vostro istinto e le vostre inclinazioni.
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INTERNI 3 - 3.2010
Paolo Ulian raccontato da Enzo Mari
L'incontro avviene nello studio di Enzo Mari in piazzale Baracca a Milano, un luogo 'mitico' che tutti gli studenti di design vorrebbero visitare e che attraverso le pareti annerite, le vecchie attrezzature da lavoro, gli oggetti e i prototipi accatastati, le tracce di migliaia di lavori, parla delle tante battaglie combattute dal più radicale e incorruttibile dei protagonisti del progetto italiano. In questo spazio che sembra essersi fermato ai gloriosi anni Sessanta, all'epoca in cui tutto veniva inventato e riprogettato con il semplice obiettivo di rendere migliore e più funzionale la vita quotidiana, non c'è una sola cosa che rimandi all'immagine 'glam' oggi associata al design. E' lo stesso Mari a precisare da subito, con la nota e inflessibile determinazione, la sua assoluta distanza da una disciplina che oggi, a suo parere, è asservita alle leggi del marketing e quindi ha fatto del designer un semplice interprete di tendenze.
Garbato e discreto come sempre, Paolo Ulian ascolta con reverenziale ammirazione. Dai suoi occhi traspare tutto l'entusiasmo per il grande impegno, quasi inaspettato, che il suo Maestro – da cui ha imparato le basi del mestiere prima come studente, poi come apprendista – ha dedicato alla cura della sua ultima mostra personale allestita alla fine di gennaio presso la Triennale di Milano (Paolo Ulian. Tra gioco e discarica, 27 gennaio-28 febbraio 2010, catalogo Electa). Non capita spesso che un designer si occupi dell'ideazione e dell'allestimento dell'esposizione di un altro designer. Se la mostra in questione è poi quella di un protagonista indiscusso del nuovo design italiano, come Ulian, e ad occuparsene è un personaggio del calibro storico di Enzo Mari, viene spontaneo chiedersi quali siano le ragioni di questa scelta, per poi cercare di cogliere le sfumature e gli aneddoti di quello che sembra un incontro tra i titani di due epoche diverse.
Perché hai scelto Enzo Mari come curatore della tua mostra?
Ulian: "Non è stata una scelta immediata. Quando mi hanno detto di pensare a un curatore, mi sono venuti in mente i tanti critici e teorici del design che il più delle volte, però, si limitano a scrivere un testo di presentazione senza entrare nella concreta ideazione della mostra. Solo successivamente mi è venuta l'idea di coinvolgere un progettista e ho pensato a Enzo Mari. Sapevo che lui mi avrebbe stimolato e fatto emozionare veramente; non immaginavo, però, quanto entusiasmo e quanto lavoro avrebbe dedicato a questa esposizione e oggi mi reputo davvero felice di avere fatto questa scelta".
Secondo te, quali sono le idee, gli elementi o i valori che vi accomunano?
Ulian: "Io penso che sia una sorta di leggera follia che ci fa andare avanti sulle nostre rispettive strade, cercando di perseguire quello che a nostro giudizio è giusto per noi e per il mondo, senza tenere conto di tanti fattori, primo fra tutti quello economico. L'obiettivo è il sentimento dell'uomo, l'aspetto etico del progetto e della vita che il più delle volte è compromesso dalle leggi del mercato".
Professor Mari, per quali motivi ha accettato di occuparsi della mostra di Paolo Ulian e quali sono gli aspetti del lavoro di questo designer che più apprezza e trova affini alla sua personale visione del design?
Mari: "Conosco Paolo da più di vent'anni. Ha lavorato per un anno nel mio studio e prima ancora era stato mio allievo presso l'Isia di Firenze. Avevo un buon ricordo di lui e avevo avuto modo di rivederlo di tanto in tanto a Milano durante la kermesse del design di aprile. Lo avevo incontrato anche in occasione della sua ultima mostra allestita l'anno passato presso la Fabbrica del Vapore. Ciò che avevo colto era appunto una componente umana distaccata dalle problematiche ottuse della professionalità del designer. Io e Paolo abbiamo avuto due formazioni diverse, se non altro per ragioni anagrafiche. La mia è avvenuta in un periodo in cui esisteva, a livello sociale e collettivo, un'idea del design basata sul concetto dello standard e in cui si credeva al design come strumento per migliorare a livello universale la vita dell'uomo. Oggi questa idea non esiste più; il design risponde ormai alle logiche della moda, al principio della diversità fine a se stessa, secondo il quale gli oggetti devono essere presentati ogni sei mesi in un modo diverso. Ai tempi della mia formazione non esistevano le scuole di design. La mia fortuna è stata proprio quella di avere imparato sul campo questo mestiere, senza peraltro sapere cosa fosse il design, semplicemente osservando l'arte e l'operato dei grandi maestri e studiando le modalità con cui migliorare gli oggetti allora prodotti dall'industria.
Paolo, invece, si è formato all'Accademia e poi ha conseguito il diploma in design. Di tutti i suoi lavori, quelli che risultano più deboli sono proprio quelli legati agli insegnamenti di design. In lui ravviso però un parallelismo di vissuto, di ideali e di utopia, la stessa visione idealistica che animava i miei primi anni di lavoro. I tempi sono ovviamente cambiati; il design è diventato nel frattempo una metastasi, ma questa sua scelta di rimanere fuori dalle regole della professione e di lavorare su determinati principi, come la minimizzazione dello scarto, mi ha portato a condividere e apprezzare da sempre le sue idee progettuali. Se mi guardo in giro vedo ben poche esperienze paragonabili a quella di Paolo Ulian. Per questo ho partecipato a questa mostra come fosse una mia mostra, cercando di mettere a fuoco certi concetti su cui io stesso lavoro da sempre".
Per la mostra avete disegnato a quattro mani un pezzo speciale. Di cosa si tratta?
Mari: "E' una colonna che mostra come potrebbero essere impiegati gli elementi di scarto derivanti dalla lavorazione del marmo per la produzione delle lastre curve utilizzate in edilizia per il rivestimento delle colonne moderne cilindriche. Per ciascuna lastra – per una colonna alta 10 metri ne occorrono circa 720 – ne viene prodotta una di scarto che solitamente finisce in discarica. La nostra idea è stata quella di dimostrare come questi ma anche altri elementi di recupero possano essere utilizzati per realizzare oggetti di vario uso e varia tipologia".
Ulian: "Questa colonna rappresenta quello che si può fare di bello con il negativo dell'esistente. Dimostra che con la stessa quantità di materiale con cui si realizzano 200 colonne se ne possono fare 400".
Tutti oggi parlano di progetto ecologico, di recupero e riciclo. Non pensa che spesso si abusi di questi concetti?
Mari: "Si tratta perlopiù di interventi pubblicitari che nulla hanno di ecologico. Si è iniziato a parlare di ecologia trent'anni fa, quando le discariche hanno cominciato a diventare delle montagne. Il problema sembrava riguardare i criteri e le modalità della loro razionalizzazione; è stato così che si sono affinati gli strumenti economici per il radicamento della mafia. Un altro esempio: le centrali nucleari, abolite da un referendum popolare nel 1987. Un grande risultato, se non fosse che l'Italia ha continuato e continua ancora oggi a dipendere dall'energia nucleare prodotta in Francia a pochi chilometri dal nostro paese. Quando si parla di prodotto ecologico, ci si dimentica, almeno in Italia, che siamo nelle mani dell'industria che non ha ideali ma solo una regola ferrea: qualsiasi produzione deve dare un reddito. Cosa significa, dunque, intervenire sull'ecologia? Partiamo dal presupposto che chi si occupa e produce design in Italia lavora in una situazione corretta e controllata sul piano sindacale e che il risultato della sua attività è comunque un prodotto di qualità. Non dimentichiamo, però, che per produrre si consuma energia e materie prime, la cui provenienza e la cui qualità sono difficilmente controllate e controllabili. E' dunque impossibile garantire che un prodotto sia ecologico nell'interezza del suo percorso di vita. Quando parliamo di progetto ecologico entriamo dunque nel retaggio demenziale delle scuole, che affrontano i problemi senza conoscerne e comprenderne la complessità. Per farlo realmente bisognerebbe ipotizzare soluzioni radicali che appartengono però all'utopia. Questa mostra non pretende certo di dare delle risposte universali ma semplicemente di evidenziare come l'unico progetto ecologico oggi possibile sia modificare i comportamenti della gente. Se la mostra sarà riuscita a comunicare questo messaggio anche a una sola persona, avrà raggiunto il suo obiettivo".
"Tra gioco e discarica"è il titolo che a suo parere riassume l'operato di Paolo Ulian. Ci spiega questo concetto?
Mari: "Nel lavoro di Paolo Ulian io ravviso la componente etica che hanno i bambini nella loro prima fase di esperienza e conoscenza del mondo. Come loro, Paolo cerca di apprendere facendo le cose, giocando. Il gioco rappresenta il più alto livello di conoscenza per i bambini, che proprio attraverso l'attività ludica raggiungono, nel giro di due anni, la completa percezione del mondo a partire da zero. In un qualche modo Ulian fa la stessa cosa: analizza la realtà per quello che è, la sviluppa, si diverte, segue varie direzioni di conoscenza, alcune delle quali si rivelano più valide e interessanti, altre meno. I progetti sono stati suddivisi nella mostra in quattro categorie: contestare lo spreco mortale della discarica; minimizzare lo scarto; reinterpretare oggetti esistenti; il gioco del design. Le prime tre riguardano la componente etica dei progetti; l'ultima è composta da oggetti molto semplici – un portauovo, un attaccapanni in compensato curvato, un raccoglibriciole che diventa una mangiatoia per uccelli, eccetera – che evidenziano la componente più ludica del lavoro di questo progettista".
Secondo lei, qual è il tratto distintivo della generazione di progettisti a cui appartiene Paolo Ulian?
Mari: "In Europa ci sono oggi 3-4 milioni di giovani diplomati in design, la metà dei quali non riuscirà mai a fare il mestiere di progettista. La parte rimanente è composta da coloro che credono che il design sia un'attività prevalentemente decorativa e poi da chi, come Ulian, guarda all'essenza degli oggetti con la semplicità e l'ingenuità del designer che non ha a disposizione gli strumenti della produzione. La loro dimensione obbligata è purtroppo quella dell'autoproduzione".
Ci parli di un progetto di Paolo rispetto al quale le è capitato di assumere una posizione critica.
Mari: "Ci siamo trovati a discutere della ciotola 'forata' che, in caso di rottura, si scompone in frammenti circolari utilizzabili come piattini. La critica che spontaneamente è stata: perché pensare a un oggetto che si deve rompere? Non avrebbe più senso progettarlo in modo che non si rompa e possa durare a lungo?".
Ulian: "Il mio intento era in realtà quello di stimolare la gente a guardare con occhi diversi quello che solitamente viene considerato uno scarto, un rifiuto. Invitarla a considerare che anche ciò che viene gettato nella spazzatura potrebbe in realtà prestarsi a un utilizzo diverso e inaspettato".
E i progetti che invece le piacciono maggiormente?
Mari: "Mi vengono subito in mente alcuni progetti da lui realizzati ancora da studente, come quelli con il cartone cannettato usato nelle sue naturali qualità decorative ma con l'obiettivo di evitare ogni spreco di materiale. Mi piace poi il contenitore con paletta per le briciole di pane, che diventa una mangiatoia per uccellini, perché emerge la componente umana del progetto. Oppure il supporto per uova alla coque che utilizza i comuni piatti di casa come contenitori per il pane tostato e i residui del guscio: una piccola invenzione che introduce qualcosa che non c'era reintepretando un oggetto già esistente".
La scelta di confrontarsi con un personaggio così importante e intransigente come Enzo Mari è stata sicuramente coraggiosa. Si è trattato di un confronto stimolante?
Ulian: "Ho voluto che Mari godesse della massima libertà di giudizio e di selezione. Per cui ho accettato ogni sua idea e ogni sua critica, anche quelle che magari hanno penalizzato progetti a cui sono molto affezionato. Le sue critiche costituiscono per me uno stimolo importante, un suggerimento per migliorare il mio lavoro. Per esempio, parlando dei vasi in ceramica che ho disegnato prendendo spunto dagli imballaggi di cartone ondulato, mi ha detto: perché non utilizzare direttamente il cartone? E così è stato: ho preso quelli solitamente usati per proteggere le bottiglie di vetro e vi ho inserito all'interno mezza bottiglia di plastica tagliata. Così è nato il vaso che ho esposto alla mostra, così Enzo Mari mi ha aiutato a migliorare un progetto e ad esprimere meglio un'idea che avevo sviluppato solo allo stato latente".
Mari: "Io riesco a capire una cosa solo quando la affronto da un punto di vista progettuale. Mi viene in mente quello che fece Richard Sapper quando venne chiamato a far parte della giuria del Compasso d'Oro. All'assegnazione dei premi, assieme alle motivazioni della scelta volle aggiungere i consigli per migliorare i progetti. Questo per dire che un progettista non può fare a meno di approcciare un tema senza assumere un atteggiamento progettuale. Così è stato per la mostra di Paolo: il nostro modo di pensare è lo stesso, l'utopia a monte è molto simile, per cui analizzando determinati progetti non ho potuto fare a meno di calarmi in essi e cercare talvolta di evidenziarne i limiti o le possibilità di sviluppo e miglioramento".
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F-MAGAZINE - 2.2010
Se pensi alla parola "marmo" quali suggestioni (poetiche, culturali, simboliche, artistiche, estetiche, sociali) ti vengono in mente? Sto pensando al corpo a corpo di Michelangelo con la scultura ma anche al nitore (fuorviante e antistorico ma così prepotentemente entrato nel dna della nostra percezione e della nostra cognizione culturale ed estetica di un'intera epoca e civiltà) delle statue classiche (dalla Venere di Milo all'Apollo di Olimpia) oppure al concetto di pesantezza e di durata eterna associata a questo materiale…
In tutte le fasi dell'evoluzione culturale della nostra civiltà il marmo ha sempre avuto un ruolo centrale alimentando le più alte espressioni artistiche ( da Fidia a Brancusi ) e ha sempre caratterizzato simbolicamente i luoghi di culto delle varie civiltà e religioni. Io credo che il marmo abbia per sua natura una vocazione sacrale. E' il materiale stesso che ce lo suggerisce con la sua fisicità, una fisicità pesante, che paradossalmente sembra volerci raccontare qualcosa di incorporeo, di impalpabile, qualcosa che appartiene al mistero universale. Non a caso Kubrick in "2001 odissea nello spazio" rappresenta Dio proprio con un monolite di pietra, un monolite che gli uomini scimmia istintivamente adorano perché lo percepiscono come qualcosa di assolutamente importante anche se totalmente indefinibile. La stessa reazione istintiva si può provare osservando un blocco di marmo, o ancora di più, le pareti bianche di una cava. Il marmo non è ancora stato trasformato dalle mani dell'uomo, ma possiede già un potere emozionale fortissimo che arriva diretto e che ci colpisce nel profondo.
Conosci qualche componimento poetico, colto o della tradizione popolare come una filastrocca, associato al marmo?
C'è un'aforisma di André Gide che mi piace molto:
"Lo scultore non cerca di tradurre in marmo il proprio pensiero: egli pensa direttamente come se già tutto fosse di marmo, egli pensa in marmo.
Nato e cresciuto a Massa Carrara (luogo dove per altro vivi tutt'ora) hai respirato il particolare ambiente delle cave e dei processi di estrazione e lavorazione del marmo? Quanto ha contribuito questa prossimità al modo con cui lavori sugli scarti e sul recupero dei materiali?
Durante la mia infanzia il gioco più diffuso tra noi bambini era quello delle "Piastre", una specie di gioco delle bocce da farsi con dei piccoli pezzi di lastre di marmo. Chi riusciva a "scocciare" le piastre degli altri avversari vinceva. Era quindi fondamentale accaparrarsi i pezzi migliori per avere più possibilità di vincere, proprio perché certi tipi di marmo resistevano meglio di altri agli urti e ai lanci. Una piccola cultura sulle caratteristiche dei vari tipi di marmo me la sono fatta semplicemente giocando nel cortile di casa e nelle strade. Per reperire le piastre migliori dovevamo andare a rifornirci nelle numerose discariche di marmo che c'erano nelle vicinanze e lì si poteva assistere alla quantità enorme di semilavorati di scarto che venivano eliminati ogni giorno dai laboratori. Quindi penso che essere cresciuto in questi luoghi abbia sicuramente influito sulla formazione della mia sensibilità per il recupero dei materiali.
Poi, nel 1990, appena diplomato in industrial design, ho cominciato a visitare molti laboratori artigianali del marmo e molte discariche proprio con l'intento di iniziare a fare qualcosa con quelle tipologie di scarti provenienti da ogni tipo di lavorazione. Volevo realizzare una collezione di oggetti "al contrario", realizzati cioè con pezzi ripescati dalle discariche e caratterizzati da una ripetitività formale che consentisse una loro reperibilità e continuità nel tempo. Si trattava di riconoscere nei semilavorati scartati una loro vocazione a trasformarsi in qualcosa d'altro senza forzature, senza troppe modifiche, solo con piccolissimi interventi successivi.
Che valore attribuisci al marmo e alla pietra in generale e con che materiali preferisci lavorare?
Con il marmo ho un approccio reverenziale, direi quasi di soggezione per ciò che questo materiale ha rappresentato nella storia e nella cultura dell'uomo. Con altri materiali naturali come il legno o il vetro non è la stessa cosa, sono materiali che si possono ricreare, il marmo invece no, ogni blocco è unico con le sue venature e macchie e nuvole sempre diverse, non sappiamo ancora per quanto tempo si potrà estrarre dalle cave. Il marmo quindi è per me un materiale assolutamente speciale, da rispettare anche nelle modalità di lavorazione adottate per la sua trasformazione.
Per il resto amo lavorare con qualsiasi altro materiale naturale, come la ceramica, il vetro, il legno.
Che tipi di marmi hai avuto occasione di utilizzare nei tuoi lavori e con quale approccio (mentale ma anche corporeo) li hai affrontati?
Non so esattamente il perché, ma istintivamente sono attirato dai tipi di marmo che conosco bene e specialmente dal bianco di Carrara, non quello dai fondi più bianchi e dalle venature delicate bensi' da quelli di categorie più basse come il C e D con fondi più tendenti al grigio, segnati da venature con tonalità più forti e forse per questo meno nobili, probabilmente un po' come mi sento di essere anch'io.
Usi particolari tecniche (artigianali, industriali, nuove tecnologie)? E quali strumenti di lavorazione?
Tutti gli strumenti per la lavorazione del marmo mi interessano, nessuno escluso.
Da quello a più alto contenuto tecnologico a quello più elementare, tutti hanno un loro preciso linguaggio, una loro espressione da indagare e studiare per farla emergere al meglio nel progetto.
La tecnologia a controllo numerico del taglio a getto d'acqua è quella che più mi attira perché consente di avere degli approcci totalmente inediti rispetto a quanto fatto nella storia della lavorazione del marmo, è un mondo in cui c'è ancora molto da sperimentare e da scoprire.
Ritieni che un materiale così connotato, simbolicamente e semanticamente, come il marmo possa suggerire nuove direzioni progettuali e nuovi significati e funzionalità agli oggetti?
Il mio amico Vinicio che è un bravo artigiano, mi rammenta spesso che "il marmo bisogna saperlo rispettare e che è fondamentale lasciarsi guidare dai suoi limiti e dalle sue caratteristiche strutturali. Se si cerca di forzarlo o di stravolgere le sue proprietà, lui si ribella violentemente". Involontariamente dice le stesse cose che aveva teorizzato Adolf Loos sull'uso cosciente dei materiali ed è esattamente cosi', le potenzialità simboliche e funzionali del marmo sono infinite, ma è necessario non allontanarsi mai troppo dalla strada che ogni materiale ci indica con chiarezza.
Hai definito il tuo approccio un "progettare in funzione dello scarto" poiché inserisci nella fase progettuale anche il controllo formale del pezzo di risulta prodotto da una determinata lavorazione. In questo modo ti è possibile definire e creare una funzione autonoma dello scarto o anche una sua funzione integrata all'oggetto dal quale deriva. Come applichi questo tuo modus operandi al disegno di oggetti in marmo?
Tutto è nato dall'utilizzo della tecnologia waterjet e dall'osservare come gli scarti di lavorazione erano spesso più interessanti dell'oggetto da cui derivavano. Cosi' ho pensato di invertire il percorso canonico di progetto, dove solitamente tutto ruota intorno al pezzo da realizzare, spesso senza valutare la quantità di scarti che questo approccio comporta. Ho cercato di eliminare la disparità tra "pezzo da utilizzare" e "pezzo da scartare" tentando di imprimere la stessa valenza utilitaristica a entrambi. Un esempio che esprime bene questo concetto è il tavolo "Without Waste" realizzato per F65 di Marina di Carrara in cui da una serie di tagli eseguiti su una lastra di marmo si possono ricavare tutti i pezzi necessari per comporre le basi tridimensionali che sorreggono il piano di vetro, mentre lo scheletro della lastra svuotata, oltre a testimoniare la volontà di utilizzare tutto il marmo lavorato, diventa la base naturale del tavolo.
Come hai iniziato a lavorare in questa direzione e con quali finalità?
Mi racconti la tua esperienza con Henraux?
La ricerca sui semilavorati di scarto è stata fondamentale per tutti gli altri passi successivi. Dopo questa esperienza, nel 1992 mi chiamò l' Henraux per ideare una serie di pannelli decorativi da realizzarsi con la tecnologia Waterjet che all'epoca era appena arrivata sul mercato. Osservando l'utilizzo di questa macchina in azienda, mi resi conto che gli scarti di materiale erano altissimi, circa il 30/40 % del materiale lavorato. Pensai allora di progettare una serie di pannelli ad intarsio "autarchici" il cui decoro finale era il risultato dell'unione sinergica del pezzo positivo e di quello di scarto nello stesso pannello. Tutto il materiale lavorato veniva utilizzato senza produrre alcuno sfrido. I decori non riproducevano elementi figurativi o quant'altro, volevano rappresentare solo una semplice e per me corretta interpretazione delle caratteristiche della macchina e del materiale lavorato.
Hai dichiarato di aver subito una forte influenza da Angelo Mangiarotti e dalle sue sculture in marmo realizzate con le nuove tecnologie. Ci potresti descrivere cosa ti colpisce nella sua particolare tecnica di lavorazione?
Alcuni progetti di Angelo Mangiarotti per me sono dei fari illuminanti, sono dei capolavori di invenzione e di intelligenza, ma non solo, sono anche delle grandi lezioni di etica progettuale . Quando realizza "Cono-Cielo", una splendida struttura/scultura alta 11 metri lo fa utilizzando un unico blocco di marmo grande un decimo della colonna stessa e da questo blocco ricava tutti i pezzi necessari per la costruzione dell'opera. Oppure nella serie di sculture "Divenire" e "Variazioni" sempre da un blocco di marmo e sempre utilizzando il taglio a filo diamantato ottiene un interessante gioco di altorilievi facendo fuoriuscire alcune porzioni del blocco sezionato. Positivo e negativo convivono felicemente nella stessa opera in perfetta simbiosi. Mangiarotti riesce a far chiudere il cerchio senza sbavature, con un assoluto controllo della materia e della tecnologia, lasciando a noi le emozioni e le riflessioni.
Ci potresti parlare del progetto di "Colonna potenziale"?
E' un progetto nato a quattro mani con Enzo Mari per la mia mostra personale intitolata "Tra gioco e discarica" che si è svolta alla Triennale di Milano lo scorso anno. Volevamo fare una sorta di monumento allo scarto, cosi' abbiamo pensato a dei semilavorati di risulta in marmo che avevo raccolto qualche anno prima e che conservavo ancora in studio, delle lastre curvate derivate dalla lavorazione dei rivestimenti semicilindrici per colonne.
Ci siamo detti: "scommettiamo che con questi pezzi di risulta riusciamo a costruire una colonna più bella di quelle di produzione e a dimostrare che gli scarti possono avere una grande dignità formale?"
Abbiamo realizzato una struttura di legno e l'abbiamo rivestita con queste lastre in modo da ottenere una porzione di colonna greca di stile dorico che per noi è un' emblema della massima qualità formale espressa dall'uomo.
E di Vaso Vago, realizzato all'interno del progetto "Cambio Vaso" ideato da Gumdesign per Up Group?
Per questa mostra avevo intenzione di realizzare un vaso di grandi dimensioni ma contemporaneamente volevo evitare di generare grandi quantità di scarti, come di solito avviene nella lavorazione dei vasi per tornitura. Cosi' sono partito dalla bidimensionalità di 3 lastrine di marmo di 60 x 60 x 2 cm sulle quali ho realizzato dei tagli concentrici per produrre un certo numero di anelli in marmo che ho poi sovrapposto in modo sfalsato gli uni agli altri per andare a formare un vaso alto circa 50 cm. Praticamente da una lastrina di soli 6 cm di spessore ho ricavato un vaso dieci volte più grande utilizzando un decimo del materiale.
Hai un progetto nel cassetto che riguarda il marmo… Ce lo potresti raccontare?
Ne ho più di uno, per il prossimo salone del mobile di Milano sto preparando cinque nuovi progetti di librerie e tavoli in marmo. Nelle librerie sono state utilizzate marmette recuperate da fondi di magazzino che con elementari lavorazioni si trasformano in eleganti moduli componibili.
Nei tavoli ho cercato di approfondire la mia ricerca sul "progettare in funzione degli scarti" dove il decoro a fori passanti dei piani diventa "necessario" per ricavare i piccoli pezzi che, sovrapposti, vanno a formare le gambe.
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PANE E PROGETTO di STEFANO FOLLESA - 9.2008
Inizierei dall’Istituto d’Arte e in seguito dall’Accademia di Belle Arti a Carrara. Normalmente si affronta un tale percorso per due motivi: uno è perche si è creativi e bravi nel disegno, l’altro perché in qualche modo (parenti, famiglia, conoscenze), si respira quell’aria già nell’infanzia. Anche per te è stato così?
In un certo modo è stato così, mio padre era disegnatore tecnico alla Nuovo Pignone e spesso portava il lavoro a casa per passare molte ore al tecnigrafo. Ho passato così la mia infanzia, tra carta da lucido e libri di disegno tecnico, tra pennini a china e normografi. Forse è anche per questo che fin da piccolo, un po’ come tutti i bambini, ho iniziato a disegnare e inventarmi ogni sorta di giochi per poi costruirli con pezzi di fortuna o ricavati da altri giocattoli smontati.
Credo che da un lato ci sia stata sicuramente l’influenza del lavoro del padre ma dall’altro anche una forte inclinazione istintiva al progetto e all’invenzione. L’istituto d’Arte è stato un passaggio naturale, una scuola che nonostante la pessima fama di essere a basso contenuto di cultura umanistica mi ha dato molto, soprattutto mi ha fatto capire la missione dell’arte quando ancora non ne conoscevo il senso, il significato pieno.
Poi il passaggio all’Accademia di Belle Arti di Carrara dove ho avuto la fortuna di avere come insegnanti di pittura due grandi personaggi come Getulio Alviani e successivamente Luciano Fabro.
Carrara-Firenze (Isia). La scelta di lasciare l’Accademia e proseguire i tuoi studi in una scuola così fortemente specialistica nasce da un rapporto già avviato col design?
No, fino al periodo dell’Accademia non avevo ancora realizzato che il design poteva rappresentare il perfetto seguito per le mie inclinazioni. E’ successo che al terzo anno di corso all’Accademia un mio amico che frequentava la Facoltà di Architettura di Firenze mi parlò dell’ Isia, una delle poche scuole di industrial design in Italia nei primi anni ottanta. Così, un lunedì presi il treno per Firenze e andai a visitare l’Isia e tra le molte cose della scuola che potevano attirare la mia curiosità mi colpì un particolare secondario, l’orario delle materie che esigeva una frequenza obbligatoria e a tempo pieno.
Io che provenivo dall’esperienza dell’Accademia dove vigeva una disciplina poco ferrea, ne fui positivamente colpito proprio perché il quel periodo sentivo l’esigenza di affrontare la mia formazione didattica con più impegno e il programma dell’Isia mi sembrò perfetto. Fu per questo motivo che dopo pochi mesi lasciai l’Accademia e, dopo aver superato l’esame di ammissione, mi iscrissi con entusiasmo all’Isia.
Mi puoi parlare della tua esperienza fiorentina e del clima che si respirava all’Isia alla fine degli anni ottanta (influenze, passioni, linguaggi)e quindi della tua formazione come designer ?
Il periodo che ho passato a Firenze dal 1983 al 1987 è stato per me esaltante. All’Isia si viveva come in un collegio, di giorno si seguivano i corsi e di notte si lavorava per consegnare i lavori il giorno successivo. Era quel tipo di impegno totalizzante che cercavo e ne ero pienamente soddisfatto. Il primo anno fu positivamente scioccante, il corso di progettazione era tenuto da Paolo Bettini, un uomo di grande cultura e carisma che adottava una metodologia di insegnamento totalmente fuori dagli schemi, era una sorta di Oliviero Toscani ante litteram che, come me deve aver influenzato profondamente anche le visioni progettuali di molti altri studenti tra cui Gabriele Pezzini, Donata Paruccini e Antonio Cos, tutti e tre usciti dall’Isia in quegli stessi anni e oggi apprezzati designers.
Nei rari momenti di libertà ci si recava alla facoltà di Architettura per assistere alle lezioni di Koenig e di Segoni, o ad incontri indimenticabili come, tra gli altri, quelli con Achille Castiglioni e con Dino Gavina.
Erano gli anni in cui uscì il primo Macintosh della Apple, quel piccolo strumento che ebbe un impatto così nuovo e magico sul modo di intendere il disegno e di conseguenza anche sulla maggior parte dei nostri elaborati.
Stilisticamente poi si respirava l’aria di Memphis, di Alchimia, dei Bolidisti, ma all’Isia, in termini progettuali, questi modelli non ebbero molto seguito anche perché in quegli anni, dall ’85 all ’87, Enzo Mari, che teneva uno dei corsi di progettazione, catalizzava totalmente l’attenzione di noi studenti alle sue lezioni fiume. Il corso con Mari fu un’esperienza radicale, per certi versi anche sofferta. La sua forte personalità ci travolse letteralmente e alla fine nulla ci sembrava più come prima. Scoprimmo l’importanza del senso etico nel progetto, ci fece capire che progettare non era solo un gioco di invenzione e di elaborazione estetica, ma era in prima istanza la veicolazione di un pensiero, di una posizione politica, di un dissenso verso gli aspetti di una realtà che non condividevamo.
Ti cito alcuni nomi in totale disordine Branzi, Morozzi, Bimbi, Gioacchini,Vegni,Giovannoni,Palterer,Micheli,Gualtierotti, Deganello, hanno tutti in comune la formazione fiorentina. Firenze, città lontana dalle logiche industriali, ha generato per strane logiche, forse legate all’impossibilità dell’architettura, un gran numero di designer. Come ti spieghi questa attitudine di unà città che non ha però poi dato molto ai suoi figli?
Penso che a Firenze come pure in altre città italiane in cui si insegna industrial design si possa apprendere bene il mestiere, ma poi per esercitarlo pienamente si deve andare a Milano. Lì si trovano tutti i media e le aziende più influenti, lì c’è il Salone del Mobile, il più importante del mondo, c’è un’Istituzione come la Triennale che da alcuni anni ha ripreso a funzionare egregiamente e ad essere il cuore pulsante del design Internazionale anche grazie al suo nuovo Museo.
Il design fiorentino, secondo me, si é esaurito alla fine degli anni settanta quando i Radical rappresentavano la vera essenza dell’ avanguardia nel design internazionale. Oggi, mi pare che a Firenze e in Toscana si sia istaurato un certo tipo di industrial design politically correct, caratterizzato da un carattere debole e quasi conformista. Non si rischia più, si progetta per l’industria che deve macinare i grandi numeri e questo, a lungo termine ha portato a una sterile omogeneizzazione dei progetti e a soffocare quella libertà espressiva di cui i Radical ne erano la bandiera.
Anche le aziende toscane, a parte qualche raro caso come Edra, non figurano quasi mai nel dibattito culturale. Sono aziende dai grandi numeri di produzione che apportano ben pochi stimoli per promuovere i nuovi codici espressivi. Oppure, dall’altro lato ci sono aziende che esprimono il loro coraggio espressivo con formalismi fine a se stessi, privi di ogni significato, progetti che nascono con l’unico scopo di shoccare ma senza alcun tipo di contenuto.
Detto questo, rimango molto affezionato a Firenze e continuo a confidare nella sua capacità di sapersi rimettere in gioco, come ha già dimostrato nel settore della moda e di ritagliarsi in futuro nuovi primati ed esclusività anche nel mondo del design.
Torniamo alla tua attività. Finita l’ISIA torni credo a Massa, dove avvii la tua attività. Come nascono i tuoi primi lavori in una città che col design ha poco a che fare (credo che l’Henraux sia stato l’unico committente locale ma tra l’altro anche molto atipico”?
Durante gli anni dell’ Isia, io, mio fratello e un amico, avevamo già avviato uno studio che si occupava di grafica editoriale, poi appena diplomato, mi chiamò Enzo Mari per chiedermi di andare a lavorare nel suo studio. Così andai a Milano pieno di entusiasmo e lavorai con Mari per un anno e mezzo, dopodichè ritornai in Toscana dove avviai con la mia fidanzata un negozio di oggettistica in vetro di Murano e in parallelo anche il mio piccolo studio in un appartamento di una casa popolare. Cominciai a partecipare ai concorsi e alle mostre del fuorisalone milanese, in particolare alle mostre organizzate nello spazio Opos e in altre gallerie. I primi risultati sono arrivati quasi subito, anche grazie a una serie di pubblicazioni dei miei lavori su alcune riviste. Così si crearono le condizioni per collaborare con le aziende, mi chiamò L’Henraux dopo che avevano visto su Domus alcuni oggetti realizzati con semilavorati di scarto in marmo. Con loro sviluppai un progetto per pavimentazioni a intarsio in cui non c’era alcun scarto di materiale lavorato. Poi mi chiamarono la Bieffeplast di Vicenza e Driade che portarono i miei primi progetti al Salone del mobile. Devo riconoscere che a parte qualche collaborazione con Ceccotti e Luminara di Cascina, la zona in cui vivo non è mai stata una fonte per il mio lavoro, mi è difficile lavorare con aziende che non sono disposte a rischiare e che il più delle volte sono legate a schemi logori.
Ti faccio una domanda molto personale alla quale se vuoi puoi evitare di rispondere ma la faccio perché mi piacerebbe che questo libro mostrasse le verità e non solo la facciata della professione. Dopo quanto tempo dall’avvio della professione hai raggiunto una tua indipendenza economica?
Per il momento sono riuscito a raggiungere uno stato di “Instabilità economica” e mi sembra già molto dopo anni di duro lavoro. Il mio è un bilancio che varia e che vacilla durante l’anno senza troppe certezze e al quale mi sono abituato. Questo per dire che certe scelte si pagano, l’indipendenza e una certa dose di libertà mi portano spesso a rinunciare a proposte che non mi appassionano preferendo magari di intraprendere progetti non pagati o pagati poco ma che mi entusiasmano per la storia che mi fanno vivere.
Il tuo design “delle piccole invenzioni” è una piccola bandiera contro un approccio al progetto che sposta sempre più in alto il limite della “spettacolarità”. Mi trovo in totale sintonia col tuo modo misurato di affrontare la professione ma mi rendo conto, ogni giorno di più, che la società italiana va in una direzione diametralmente opposta. Come riesci a difendere questa tua coerenza?
Cerco semplicemente di seguire la direzione dei miei sentimenti, ricercare la verità in ogni cosa con scrupolo. Le mode e le tendenze non mi interessano.
Mi racconti come riesci a procurarti le occasioni di progetto. Proponi i tuoi progetti alle aziende, partecipi a concorsi, hai dei clienti consolidati …?
Sembrerà strano ma non sono mai andato da un’azienda a chiedere di poter collaborare. Non che abbia una folta schiera di aziende pronte a offrirmi lavoro, però devo dire che fortunatamente da ogni oggetto esposto in una mostra o realizzato per una produzione più ampia sono sempre nate nuove opportunità di lavoro. Penso che la qualità del progetto sia la migliore pubblicità per continuare a fare ciò in cui si crede.
Le nostre università preparano oramai ogni anno centinaia di giovani designer pronti a bussare le porte della aziende più conosciute con la speranza che idee e creatività possano far strada al proprio nome. Non esistono in realtà delle regole per questa professione ma se tu dovessi scriverne alcune cosa proporresti?
I risultati migliori, in termini qualitativi di progetto si ottengono sempre quando ci si rispecchia perfettamente nel proprio lavoro, quando si segue il proprio istinto senza forzature. Ci sono infinite sfumature in questo mestiere e quella che più ci assomiglia probabilmente non esiste ancora e va creata ad hoc sulle nostre abilità e debolezze. Sarà questo il progetto più impegnativo per chi intraprende questa strada, costruirsi un percorso personale da seguire con costanza nel corso della propria vita, anche a costo di molti sacrifici. Il valore di questo mestiere si misura proprio sulla forza e l’autonomia della propria identità, sulla capacità di raggiungere l’eccellenza con modalità inesplorate e non su facili conformismi espressivi.
Uno sguardo agli scenari futuri. Quali prospettive per la professione di designer in un paese dove si produce sempre meno?
Credo che già ora si stia delineando un nuovo modo di progettare.
Il prodotto industriale non è più l’unico e ambizioso obiettivo a cui le giovani generazioni di designers aspirano. In questi ultimi anni l’attenzione si è spostata su un design che si avvicina molto al linguaggio dell’arte, al pezzo a tiratura limitata, al pezzo unico. E’ una progettualità che al contrario di quella finalizzata al prodotto industriale ha dei risultati tangibili a più breve termine, con meno ostacoli e vincoli e soprattutto senza alcun tipo di censura da parte dei soliti signori del marketing.
Credo che grazie al design, nei prossimi anni si potranno ricreare le condizioni per rivitalizzare un mestiere tanto antico e prezioso quanto poco valorizzato qual è il mestiere dell’artigiano. Mi piace pensare che nel prossimo futuro molti giovani designers sceglieranno di percorrere questa strada così appagante sotto tutti i punti di vista e così pregna di valori etici e umani. Fare il designer come editore di se stesso può dimostrarsi una delle migliori possibilità per un giovane che vuole far conoscere le sue potenzialità. Ormai solo in Europa, oltre al Salone Satellite, ci sono decine di altri appuntamenti importanti che garantiscono una buona visibilità e grandi opportunità di contatti con operatori selezionati. Esistono poi le molte realtà dei Design shop all’interno dei Musei il cui giro di affari si è moltiplicato negli ultimi anni e che si stanno trasformando in veri e propri centri per la promozione e vendita delle nuove visioni che il talento del giovane design internazionale esprime con così tanta energia.
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FAENZA - 09.2008
Storicamente il design italiano è nato come progettazione seriale di oggetti con un preciso scopo d´uso: prodotti pratici, pensati per soddisfare le necessità di un'Italia all’alba della propria industrializzazione. Pensi che la realtà del design contemporaneo sia ancora questa?
Dagli anni cinquanta ad oggi il design ha subito diversi passaggi e mutazioni. Ad ogni nuova realtà sociale ed economica che si presentava ha sempre corrisposto un certo modo di esprimersi attraverso il progetto. Oggi la situazione non è diversa, la realtà in cui viviamo ci dà dei segnali forti e chiari, abbiamo preso coscienza che la crescita industriale non può essere infinita, ci sono dei limiti ambientali che non lo concedono. Ci siamo accorti delle falle e degli squilibri che caratterizzano l’attuale logica di mercato e questo provoca delle reazioni psicologiche in chi opera nel mondo del progetto. Basta guardarsi intorno per capire che oggi l’industria non è più l’unico obbiettivo per le giovani generazioni di designers. Nell’aria si comincia a respirare un urgenza di allontanamento dalla cultura industriale per indirizzarsi anche in altri ambiti come le piccole produzioni artigianali che permettono una maggiore libertà espressiva e garantiscono risultati a più breve termine. E non credo che questo sia avvenuto solo per la necessità di ritagliarsi una maggiore autonomia di progetto, ma anche a causa di quel senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente che si sta diffondendo in maniera sempre più determinante nelle coscienze di tutti.
Il design italiano è sempre stato una realtà ben definita e riconoscibile. Credi che oggi se ne possa ancora parlare in questi termini? E se sì, tu te ne senti parte?
La realtà del design italiano è stata così come dici tu fino a una ventina di anni fa, prima dell’avvento di internet, oggi è ben diversa, il fenomeno del design ha raggiunto una tale diffusione a livello globale che sta portando progressivamente a un appiattimento delle varie peculiarità culturali. I linguaggi progettuali si fondono in un unico linguaggio standardizzato che ha trovato la sua definizione attraverso la rete, e per rendersene conto basta dare un’occhiata ai progetti presenti sui numerosi blog di design. I progetti dei designers inglesi piuttosto che giapponesi o italiani oggi non sono più distinguibili fra loro, per questo non ha più senso parlare di design italiano come particolarità, ma solo come una delle tante voci che cantano in un coro assai vasto.
Citando Bruce Sterling, un capitolo del suo libro ('La forma del futuro') si intitola 'Produttori d'immondizia' e parla del fatto che l'uomo inquina da prima ancora di divenire umano poiché, per dar forma alle cose, si producono inevitabilmente scarti di materiale. Il capitolo prosegue cosí: tutto é soggetto al consumo dell'uomo, tranne l'inquinamento,l'uomo ha sempre fallito nel tentativo di gestire i rifiuti ed é per questo che, con gli anni, sono aumentati fino a diventare quasi l'unica eredità che lasceremo ai posteri. In questo scenario umanamente inevitabile, come giustifica la sua professione il designer, progettista di oggetti - certo – ma non solo?
Questa è la contraddizione più evidente del lavoro del designer industriale. I suoi progetti, in caso di un grande successo commerciale, si possono tradurre in un enorme spreco di risorse naturali, di energia, di forza lavoro e che inevitabilmente si trasformeranno in pochi mesi o, nel migliore dei casi, in qualche anno in una gigantesca quantità di immondizia. In questo senso la sua responsabilità è veramente grande. La questione però è anche questa: esistono dei rari, rarissimi casi in cui gli oggetti non sono solo materia inanimata ma anche dei portatori di significati profondi che ci possono indurre a riflessioni come può fare un’opera d’arte, un bel film o una canzone d’autore. Si tratta di capire qual è il giusto equilibrio tra l’importanza del messaggio che un oggetto porta con sé e la sua diffusione commerciale. Ci sono oggetti come i Sedici animali di Enzo Mari o la lampada Toio di Castiglioni o il più recente tavolo No-waste di Ron Arad che per i loro contenuti etici, e di altissima qualità progettuale ci insegnano quello che ci può insegnare il migliore trattato di filosofia. Una loro maggiore diffusione commerciale sarebbe solo un prezioso nutrimento culturale per i sensi di molte generazioni. Nel design industriale si dovrebbe seguire questo tipo di modello, denso di significati e di impegno etico/politico. Penso che questa professione sia giustificata solo a questa condizione, di tutto il resto potremo benissimo farne a meno.
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DOMUS - 906.2007
Esprimersi progettando è l’aspetto predominante della mia vita.
Attraverso vari percorsi, sono approdato al design, scoprendone la vicinanza alle mie passioni, ma anche la contraddizione di fondo. Da un lato il designer è animato da uno spirito etico, che lo spinge a tentare di contribuire a migliorare il presente per quanto in modo infinitesimale, dall’altro è consapevole che i propri oggetti – nei casi più fortunati riprodotti in migliaia di esemplari – andranno comunque ad appesantire una situazione sociale e ambientale fin troppo compromessa. È difficile capire cosa sia giusto fare.
La mia prima reazione sarebbe quella di rinunciare a partecipare al gioco imposto dal sistema economico globale di cui non condivido le regole. Penso però che non sia giusto tirarsi indietro. Si tratta di capire cosa si può fare per cambiare qualcosa dal di dentro. Vorrei almeno tentare di esprimermi tramite i miei oggetti, e attraverso loro comunicare i valori etici – anche utopici – in cui credo. Alcuni oggetti uniscono alla funzione puramente utilitaristica una funzione semantica molto forte, più chiara di mille parole; certi oggetti possono farci riflettere ed emozionare, osservare il mondo da una prospettiva diversa. Penso alla mia ciotola “Una seconda vita”, con la quale mi premeva portare l’attenzione sul significato e sul valore dello scarto, e suggerivo una riflessione su una società che gradualmente ci ha fatto perdere la capacità di discernere l’utile dall’inutile. Vorrei che i miei oggetti fossero dei messaggi in bottiglia, lanciati con la speranza che qualcuno li raccoglierà. Mi piacerebbe operare con la libertà e la tensione ideale di un’artista servendomi però della forza comunicativa offerta dal sistema produttivo degli oggetti.
Paolo Ulian - 09.2007
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EXIBART - 14.09.2007
Cominciamo dall'inizio. Da piccolo sogni di fare l'inventore, smonti gli oggetti di casa e giochi col Meccano. Nel 1990 la tua tesi di laurea Onda, paravento in cartone ondulato, diventa un vero e proprio caso di riciclaggio creativo che ti frutta i primi riconoscimenti della critica e della stampa. A questo punto entra in scena Enzo Mari che ti chiama a collaborare nel suo studio. Da allora numerosissime le mostre e i premi, tra cui le partecipazioni alle iniziative di Opos di Alberto Zanone. Oggi lavori in proprio nella tua regione, la Toscana. Sei tu che hai cercato il design o è il design che ha cercato te?
Penso che sia stato un incontro reciproco, di quelli che capitano perché così doveva essere. Tutto ciò che facevo per gioco da ragazzino assomigliava molto a quello che faccio oggi come mestiere. Non provengo da una famiglia molto agiata e quindi la mia inclinazione a inventare e costruire si è trasformata in una vera e propria necessità per avere a disposizione giochi e strumenti altrimenti irraggiungibili. Mi sono costruito da solo quasi tutto pur di riuscire a ottenere ciò che mi attraeva in quel momento. Però, prima di focalizzare che il design era la strada giusta, sono passato attraverso altre passioni molto forti come quella per la fotografia, fin da quando avevo tredici anni, quella per le imprese scientifiche e, più avanti, per l’arte. Ed è anche grazie alla passione per la fotografia che Enzo Mari mi prese a lavorare con lui, gli piacevano particolarmente delle foto che avevo scattato e sviluppato per una mostra durante l’ultimo anno di corso all’ISIA di Firenze. Nel suo studio ho passato un periodo relativamente breve ma molto intenso che mi ha lasciato gli insegnamenti più importanti e mi ha fatto capire il senso profondo e la responsabilità sociale di questo meraviglioso lavoro. Dopo questa esperienza sono ritornato in provinci a, dove i ritmi più lenti e più vicini alla mia natura mi consentono di esprimere pienamente i miei pensieri e le mie visioni.
Una delle principali differenze fra la nuova generazione di designer italiani e quella dei maestri consiste nel fatto che questi ultimi erano per la maggior parte architetti, mentre voi siete quasi tutti laureati in corsi universitari di design. Tu stesso ti sei formato all'ISIA di Firenze. Questo diverso background ha delle ricadute sul design di oggi?
Forse non è una questione di formazione, le differenze che sussistono tra il design contemporaneo e quello dei maestri secondo me derivano principalmente dal contesto storico in cui si sono trovate a operare queste due generazioni. La prima, in piena ricostruzione postbellica, in cui tutto andava rifondato e rinnovato con energia e positività. La seconda si trova a operare in una società opulenta, anche sotto il profilo dell′offerta di progetto. I designer della passata generazione erano poche decine, oggi sono un esercito a livello globale che deve misurarsi con tipologie sempre più inflazionate e quindi con margini progettuali sempre più ridotti. Credo sia per questo che i giovani progettisti si orientano così spesso sulla ricerca di tipologie inedite, dove la possibilità di imbattersi in copie involontarie risulta decisamente più contenuta rispetto a quella riscontrabile nelle tipologie classiche. A livello di qualità progettuale però non vedo differenze. Ci sono anche oggi oggetti di buon livello, che fanno emozionare come lo facevano quelli dei maestri. Penso che al design contemporaneo italiano non sia stato ancora riconosciuto il giusto valore che si merita e nonostante un tardivo e marginale riconoscimento in questi ultimi tempi credo siano ancora molti i pregiudizi da parte delle aziende e dei media nei confronti delle giovani generazioni di designer italiani.
Incontrando alcune delle tue idee come il coltello Pane e Salame (semplicemente geniale), le argute ciabattine Print, il tavolo-panca pieghevole in Coverflex Cabriolet per FontanaArte, la “miracolosa” ciotola in ceramica Una seconda vita, o Drinkable Watercard, la famosa cartolina postale con acqua potabile da spedire nelle zone difficili del mondo, si è portati a pensare, parafrasando un recente film, che ogni cosa è illuminata, o che almeno può esserlo. Quanto c′è di nuovo nell′oggetto riutilizzato e quanto di vecchio nell'oggetto-novità-a-tutti-i-costi?
Ogni oggetto è illuminato se la sua esistenza ha un senso, una ragione, se non nasce solo con lo scopo di alimentare in modo gratuito il mercato. Gli oggetti che hanno un senso sono la proiezione di ciò che noi ci aspettiamo dal futuro, devono esprimere una sincera e costruttiva volontà di cambiamento senza compromessi, non dovrebbero solo scimmiottarla con forme accattivanti e magari seguendo pedissequamente le tendenze del momento. Che poi sia un oggetto derivato dal riutilizzo o meno credo sia del tutto secondario, l’importante è la profondità del messaggio che esso ci può rivelare, anche attraverso la sua bellezza svincolata dai canoni diffusi, una bellezza che non è mai di superficie ma è sempre la nitida espressione dell’essenza delle cose.
L′incedere dell′anatra sull'acqua appare fluido e armonico perché al di sotto le zampe nuotano convulsamente. La semplicità è una conquista complessa…
La ricerca della semplicità è l’aspetto più emozionante di ogni progetto, ma anche il più difficile da raggiungere. Il più emozionante perché il percorso che si compie nel tentativo di ottenere la massima sintesi possibile ti porta inevitabilmente a confrontarti con i meccanismi della creazione divina e con la sua inarrivabile perfezione. Il più difficile perché la tensione all’assoluto richiede grande impegno, anche in ordine di tempo. Non conosco un oggetto che sia nato perfetto, quelli che più si avvicinano all’idea di perfezione solitamente sono oggetti che sono stati plasmati dal tempo come può essere un ago per cucire, una molletta, una puntina da disegno. Sono strumenti che hanno subito un’evoluzione quasi naturale e hanno raggiunto un elevatissimo grado di perfezione, molto vicino a quello che succede in natura, come per esempio nei sassi di fiume in cui la forma rappresenta la massima sintesi tra la forma di partenza e gli eventi subiti nel corso dei secoli. Ciò che si può fare per raggiungere dei risultati soddisfacenti nel progetto è avere degli alti ideali qualitativi di partenza e dedicare tutte le proprie energie per cercare di avvicinarsi il più possibile ad essi.
Nel tuo rapporto con le aziende quali sono state le esperienze più interessanti?
È difficile risponderti perché nel rapporto con le aziende non posso dire di avere ancora trovato la condizione che corrisponda alle mie aspettative. Ci sono state delle esperienze che si sono avvicinate, come potrebbe essere quella con la Zani&Zani dove le due visioni, quella del designer e dell’imprenditore, tendevano a coincidere e quindi anche i percorsi progettuali per la realizzazione di nuovi prodotti sono sempre stati lineari e spontanei. Un’altra esperienza molto positiva è stata con Droog Design, che non è una vera e propria azienda ma da alcuni mesi ha aperto il Droog-shop online in cui si vendono direttamente alcuni oggetti del loro catalogo tra cui anche il mio Mat-Walk. Con loro ho avuto una bella esperienza a livello umano e professionale e per questo non posso che essergli riconoscente. Quello che ora cerco quando inizio una nuova collaborazione è prima di tutto un buon equilibrio tra valori umani, visioni comuni, entusiasmo, rispetto reciproco e infine anche professionalità.
Italo Calvino diceva che per scrivere un articolo ci vuole un′ora, ma per saper scrivere un articolo occorre una vita di studi, riflessioni, occhi aperti. Anche i tuoi oggetti sembrano nati, più che da riflessioni ad hoc, da un′attitudine alla ricerca che si confonde con la vita stessa…
Sì, perché questo è uno di quei mestieri che si fa a tempo pieno, come l′artista o lo scrittore. Si è costantemente immersi in una realtà parallela in cui tutto è finalizzato alla ricerca che si sta compiendo in quel momento. Le idee non nascono mai per caso, gli devi preparare il terreno propizio per far sì che emergano, devi essere sempre pronto a cogliere il particolare risolutivo di un progetto in qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi aspetto della vita quotidiana. Per aiutarmi in questo compito porto sempre con me una piccola macchina fotografica con la quale registro gli eventi e le cose che mi incuriosiscono o in cui intravedo delle potenzialità di evoluzione. Queste immagini vanno poi a formare un mio personale catalogo di emozioni dal quale poter attingere sempre nuovi stimoli e idee.
Gli oggetti intorno a noi sono come divieti o volani che materialmente impediscono o consentono di fare certe cose. Tuoi lavori come Finger Biscuit, la cialda a forma di ditale da “tocciare” nella Nutella, il metro di cioccolato Golosimetro o il tappeto da bagno con ciabatte incorporate Mat-Walk (primo progetto di un italiano per Droog Design) nascono ricalcando piccoli gesti di effrazione nei confronti del fantomatico “sistema” degli oggetti. C′entra il design con la libertà – e con il suo contrario?
Tendere a migliorare il presente è il senso di questo lavoro. Io cerco di farlo ponendomi sempre delle questioni da risolvere, banali o importanti che siano. Non ho un metodo che si adatta a tutto ciò che affronto, cerco invece di calarmi in ogni progetto con i pochi strumenti di base che ho per poi elaborare delle risposte che di volta in volta seguono delle logiche diverse. Così può succedere che a volte il mio linguaggio possa apparire contrastante o quantomeno poco chiaro. Nel caso del Finger Biscuit come pure di Mat-Walk ho cercato di “liberare” e rendere evidenti quelle abitudini che appartengono da sempre a tutti noi ma che difficilmente siamo portati a manifestare in pubblico perché considerate poco eleganti dalle convenzioni sociali. Mentre nel Golosimetro ho fatto l′operazione inversa, la voglia di cioccolato non viene assecondata e sostenuta dal progetto, viene piuttosto inibita, con l’intento di invitare alla ponderazione.
Oggi le tendenze nei consumi, nelle estetiche e nella produzione sono molte e molto spesso contraddittorie. Tuttavia, pur nella loro variegata complessità si possono ricondurre a due grandi macrotendenze che potremmo definire etico-sostenibile e creativo-sperimentale. La prima persegue i possibili sviluppi in chiave di buon senso e attenzione all'esistente, la seconda si tuffa con curiosità e a volte spregiudicatezza a sondare i futuri del design. Se dovessi collocarti nell'alveo dell′una o dell′altra, a quale di queste macrotendenze affideresti la tua ricerca progettuale?
Mi risulta difficile distinguere tra queste due definizioni, in linea di massima tendo a considerarle come un’unica necessità linguistica. Nell’affrontare ogni progetto, l’attenzione alla sostenibilità, la sperimentazione, l’invenzione, la ricerca estetica e funzionale, la tensione comunicativa e a volte la spregiudicatezza si fondono sempre, anche se in misura e con intensità ogni volta diverse. Come dicevo prima, il mio modo di procedere non segue una logica chiara e lineare, perciò è di difficile identificazione anche da parte mia. Diciamo che mi sento come un esploratore senza bagagli e con una piccola bussola in tasca pronta da usare, ma che poi preferisce sempre viaggiare a vista.
Le esperienze Design alla Coop, Salefino e più di recente la mostra in Triennale The New Italian Design. Il paesaggio mobile del nuovo design italiano sembrano convergere verso l′enucleazione di una nuova generazione di progettisti. Andrea Branzi si dice sicuro di questo, quando afferma che la partita del progetto si è riaperta e che la “società liquida” rappresenta per il designer un′occasione per inediti cimenti, a cominciare dalla ricomposizione – non della perduta, utopica unità di Forma e Funzione – ma delle forme e delle funzioni, dei significati e dei significanti, delle emozioni, dei gesti, dei frammenti del sentire…
Andrea Branzi ha fatto un ritratto obiettivo delle nuove generazioni di designer. Ha colto con chiarezza il tentativo di affrancarsi dalla pesante eredità lasciata dai maestri nonostante il grande rispetto che i giovani nutrono nei loro confronti. Non vengono traditi gli ideali di qualità degli anni d′oro del design, oggi c′è solo un forte bisogno di esprimerli con linguaggi inediti, che siano rappresentativi della contemporaneità e dei nuovi bisogni, materiali e non, che essa porta con se. Gli oggetti creati dalle nuove generazioni hanno più scale di lettura, svolgono egregiamente le funzioni per cui sono stati creati, ma sono portatori anche di altri valori più importanti. Sono dei messaggi in bottiglia che possono essere colti o no da chi li utilizza, concepiti con l′intenzione di comunicare all′utente finale un suggerimento, un ideale, un ammonimento o addirittura una posizione politica, che possano farlo riflettere, magari anche sulla possibilità di mettere in discussione il proprio stile di vita. Gli oggetti oggi hanno assunto maggiori responsabilità rispetto al passato, si sono gradualmente evoluti in strumenti etici, in piccoli cavalli di troia che cercano di insediarsi e di incidere tra le pieghe della nostra realtà sociale, economica e ambientale.
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OFFICINA CREATIVA - 05.2007
Come hai iniziato la tua carriera? Qual è stato il tuo percorso formativo e quando hai deciso di diventare un designer?
Come ti dicevo, ho sempre avuto una predilezione per le invenzioni ma più avanti anche per la scienza, per l’arte e per la fotografia. Così, dopo l’istituto d’Arte, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Carrara, in cui ebbi la fortuna di avere come insegnanti di pittura Getulio Alviani e Luciano Fabro. Al terzo anno di corso, un mio caro amico mi disse che a Firenze c’ era una scuola di design che faceva per me e allora dopo qualche mese lasciai l’Accademia e mi iscrissi all’Isia di Firenze. Da subito mi sono innamorato di questo lavoro anche grazie all’energia di Paolo Bettini e in seguito, alla passione di Enzo Mari. Dopo il diploma, nel 1990, lo stesso Mari mi chiamò a lavorare nel suo studio a Milano dove rimasi per circa un anno e mezzo e poi ritornai in Toscana con una grande voglia di fare. Qui ho avviato il mio piccolo studio di progettazione.
Il tuo ultimo progetto è una ciotola di ceramica chiamata “Una seconda vita”, realizzata per la Biennale della ceramica di Albissola nel novembre 06 e poi è stata presentata anche alla Triennale di Milano durante il Salone. Di cosa si tratta?
E’ un progetto che mi ha fatto capire una volta di più che gli oggetti possono veicolare pensieri e indurre alla riflessione più di tante parole.
La ciotola in se è un semplice centrotavola a forma semisferica realizzata in ceramica non smaltata.
E’ caratterizzata da un tratteggio di piccoli fori passanti che oltre ad assumere una valenza decorativa, in caso di rottura accidentale, consente di recuperare alcune parti dell’oggetto. Il tratteggio infatti delinea una serie di forme ellittiche che in un eventuale incidente, potrebbero salvarsi e svincolarsi dal contesto acquisendo l’autonomia di piccole e originali ciotoline. Mi piace pensare che questo oggetto possa essere un sorta di ammonimento a non disfarsi delle cose con troppa facilità, nemmeno quando, apparentemente, sono solo dei cocci.
In questo momento su cosa stai lavorando?
Sono impegnato con un paio di workshop a inviti, uno organizzato dalla Fiat/Guzzini per il lancio della nuova Cinquecento, l’altro dalla Ice Cotton Zanone.
Devo poi mettere a punto una nuova lampada da comodino che è stata presentata da Luminara al Salone del Mobile che si è appena concluso.
C’è anche una serie di idee che mi piacerebbe riuscissero a concretizzarsi nei prossimi mesi con altre aziende di illuminazione, e un mio progetto personale che rimando sempre ma che vorrei portare a termine, che riguarda il marmo e la ceramica.
Enzo Mari e Bruno Munari li consideriamo come i nostri maestri di un certo tipo di design predicato dallo stesso Munari. Quella ricerca mirata a migliorare la vita delle persone e non influenzata da moda alcuna. I tuoi lavori sembrano avere la stessa onestà . Ti va di spendere due parole su questi personaggi e sulla loro visione del design?
Mari e Munari sono stati non a caso i due progettisti che hanno lavorato maggiormente con Bruno Danese e Jaqueline Vodoz, anch’essi persone con una sensibilità fuori dal comune.
Tutti loro ci hanno insegnato la cosa più importante per chi opera nell’ambito del design: il valore e la responsabilità sociale degli oggetti quotidiani attraverso il loro significato. Munari con la sua visione pragmatica, sempre sperimentale e didattica, scevra da implicazioni politiche. Mari invece, partendo proprio dal suo credo politico per affrontare le sue ricerche. Il suo scopo da sempre è stato quello di scuotere le coscienze con l’intelligenza e la semplicità dirompente dei suoi progetti, come ad esempio il contenitore Java in cui inventa un nuovo, elementare concetto di cerniera proprio per evitare che per il suo montaggio ci fosse qualsiasi intervento manuale da parte dell’operaio. Una sorta di difesa della classe operaia attraverso il progetto.
Quando lavoravo da Mari, agli inizi stentavo a seguirlo nei suoi ragionamenti e a capire il perchè dei suoi sfoghi di rabbia. Poi col passare del tempo mi sono reso conto delle verità assolute di cui era portatore e del prezzo che si deve pagare per cercare di difenderle.
Munari l’ho conosciuto nel 1990 quando mi recai nel suo studio per sottoporgli il mio progetto di diploma. Dopo avermi fatto le dovute critiche, dedicò il resto del pomeriggio a raccontarmi le sue parabole sul buon progetto e sul perchè del lavoro del designer.
Se oggi sono ancora qui a fare questo mestiere tra mille vicissitudini lo devo molto anche a quell’incontro e al suo contagioso entusiasmo.
A proposito del tuo metodo progettuale, come si sviluppa un tuo progetto? e come vive un designer le molteplici sfaccettature di questo mestiere? Vengono elogiati come “oggetti di design” - ma quali oggetti non lo sono? forse dovremmo parlare di buono e cattivo design - prodotti molto diversi fra loro per intenti e funzione. Alcuni designer si basano su uno stile personale trasmettendo il loro personale gusto nel progetto e caratterizzandoli al punto di essere riconoscibili. Paradossalmente questi designer acquistano più fama, diventano icone riconoscibili a differenza di coloro che focalizzano il loro lavoro nel realizzare un prodotto quanto più utile, funzionale, semplice e meno costoso possibile. Qual è il tuo punto di vista in merito?
Non penso di avere un metodo preciso nell’affrontare il progetto , credo piuttosto che ci sia tutta una serie di punti fermi e di riferimenti che non saprei elencare che variano e si mescolano a seconda dell’argomento che mi trovo a esplorare. Di solito parto da un concetto che scaturisce da riflessioni sul vivere quotidiano, da aspetti della vita che non condivido e che vorrei cambiare, o più spesso, da riflessioni di carattere etico o ambientale. Non sento la necessità di concepire un nuovo prodotto solo sistono designer come Karim Rashid che puntano tutto sulla comunicazione di un liguaggio fortemente riconoscibile. Un linguaggio grafico che si prolunga anche al mondo degli oggetti tridimensionali, ma che quasi mai rivela qualcosa in più della mera superficialità.
Esistono però anche figure che nonostante abbiano caratterizzato e reso riconoscibile il loro linguaggio progettuale, cercano anche di comunicare i propri ideali etici e le proprie visioni per cercare di lasciare una traccia sugli atteggiamenti delle persone. Mi viene in mente Jasper Morrison che ha fatto della ricerca della semplicità il suo personalissimo linguaggio progettuale. Un linguaggio talmente basico che, in un mondo così permeato dalla complessità, diventa quasi un manifesto politico.
Sbaglierei se dicessi che il tuo percorso nello sviluppo di un prodotto parta più da un’idea interessante che da una ricerca?
In effetti penso che una buona idea sia il fulcro di ogni buon progetto.
Ma difficilmente le buone idee nascono da sole, bisogna coltivarle con cura, preparare il terreno più adatto affinchè possano svilupparsi al meglio. Fare ricerca significa questo, creare le condizioni per far scaturire un’idea, indagare il quotidiano con la stessa attenzione che ha l’investigatore alle prese con un caso da risolvere.
Salefino. Un libro con Joe Velluto, una ricerca di “creativity & design”. Ci vuoi parlare di questo progetto?
Il libro nasce nel 2004 da un’idea dei Joe Velluto e dalla loro volontà di dare spazio e voce a un certo modo di fare design in Italia. In questo progetto editoriale i Joe velluto oltre a mostrare i loro progetti, hanno coinvolto altri designer, Lorenzo Damiani, Giulio Iacchetti, Matteo Ragni e me. Salefino è un libro che parla di idee, idee di oggetti prima di tutto, ma anche idee di fotografia con le ricercate immagini realizzate da Matteo Sandi, ed infine di idee di grafica con elaborazioni degli stessi Joe Velluto.
La forza di questo libro sta proprio nella positiva sinergia che scaturisce da queste tre componenti.
“biscotto da dito” è un progetto che fa sorridere e sognare, raccoglie una debolezza comune e la sviluppa dando vita a un prodotto che tutti vorremmo. Com’è nato il progetto e soprattutto, è buono?
È nato nel 2004 per partecipare alla mostra “papillan” a Bolzano. Si trattava di pensare a nuovi concetti di biscotto. E’ stato sufficiente osservare il mio nipotino mentre affondava il dito nel barattolo della nutella per avere l’idea di un biscotto che seguisse quel naturale quanto popolarissimo gesto.
Il biscotto, se verrà prodotto, sarà realizzato in cialda e penso che sarà molto buono.
“Tappetino da bagno” (Mat Walk) è un altro prodotto che risolve una situazione comune nella nostra vita quotidiana...
Nel 2001, Gijs Bakker di Droog Design mi chiamò per chiedermi di partecipare alla mostra “Hotel Droog” che si tenne l’anno successivo a Milano. Fu in quella occasione che nacque l’idea di questo oggetto che si ispira al diffuso atteggiamento di servirsi del tappetino da bagno per muoversi a piccoli passi tra la vasca e il lavandino, tra la doccia e la camera la letto. Ho unito due tipologie solitamente separate come il tappetino in cotone e le ciabatte, per crearne una nuova che rivela in modo esplicito le nostre naturali abitudini.
Il “Golosimetro” È un’invitante cioccolata in cm...
le tacche di misura inibisce dal consumarla con esagerazione.
Noto che non hai un sito Internet o quanto meno non ci punti molto considerando che non sono riuscito a trovarlo. Qual è il tuo rapporto con i cosiddetti nuovi media? Hanno in qualche modo influenzato il tuo mestiere? È una mancanza di tempo, una scelta o non sei interessato a questo supporto?
Non ho ancora un sito Internet, ma è solo perchè vorrei farlo bene, e per farlo bene dovrei dedicargli un po’ di tempo, così rimando sempre.
Internet e la posta elettronica hanno estremamente semplificato le modalità di scambio dei documenti e delle immagini e quindi anche il modo di lavorare, basti pensare che solo fino a pochissimi anni fa le immagini si sviluppavano su pellicola e si inviavano con la posta tradizionale, con le difficoltà e i tempi che tutti ricordiamo.
Dove lavori quando sviluppi i tuoi progetti di design e che strumenti utilizzi?
Il posto ideale per lavorare e per riflettere con la necessaria tranquillità è sicuramente il mio studio, perchè ci sono le condizioni ottimali di spazio e di silenzio. Comunque, molto spesso le idee migliori non nascono in studio, ma soprattutto visitando i luoghi della produzione, come i laboratori artigianali, le officine e le industrie. Qui gli stimoli per il progetto si moltiplicano. Osservare una macchina utensile mentre esegue una lavorazione o un artigiano che produce un manufatto vale quanto cento ore passate davanti al foglio bianco nel proprio studio.
Poi, a volte, le idee nascono nei momenti di distrazione, specie dopo aver passato una giornata a cercare una soluzione senza averla trovata. E allora capita di imbattersi nell’idea giusta mentre si passeggia o durante il dormiveglia della mattina, quando la dimensione del sogno si mescola con la realtà facendo riaffiorare le sensazioni e i pensieri del giorno prima.
Gli strumenti che utilizzo sono la matita per mettere già le prime idee e successivamente, alcuni dei soliti programmi di elaborazione delle immagini o di rendering.
Mentre lavori a un progetto sei solito chiedere consigli e pareri ad amici e colleghi?
Sì, quando lavoro su un progetto ho intensi scambi di pareri e di proposte con mio fratello Giuseppe che considero quasi il mio alter-ego. Come in una partita di ping pong , ci scambiamo le idee e ne discutiamo molto spesso per telefono ma anche per e-mail, dato che lui lavora a Venezia.
Solo quando il progetto si avvicina alla conclusione, per avere delle valutazioni più oggettive lo sottopongo a mia moglie o ad amici designer e non.
Quale dei tuoi progetti ti ha dato più soddisfazione?
A livello di emozioni, forse il mio primo progetto, il paravento in cartone ondulato che presentai come tesi finale all’Isia di Firenze. Appena diplomato ebbi la fortuna di vincere con questo paravento il concorso internazionale "Interieur 90" a Kortrijk in Belgio. Subito dopo, la soddisfazione di vederlo pubblicato prima su Modo e poi su Domus.
Per uno studente fresco di diploma rappresentava il massimo picco di felicità.
In questo periodo il Design Museum di Londra - per celebrare i suoi 25 anni - ha allestito un'esposizione chiamata 25/25 che raccoglie 25 oggetti di design degli ultimi 25 anni selezionati da una giuria d'eccezione. Se dovessi esprimere una tua preferenza, quali sono tre prodotti che rappresentano più di altri il tuo concetto di Design?
se devo scegliere tre progetti che mi emozionano e che quindi sento più vicino alla mia visione direi:
1°- La “Tree Trunk Bench” di Jurgen Bey perchè con un gesto minimo quanto potente, riesce a ricordarci il valore assoluto delle cose semplici.
2° La grattugia di Enzo Mari. perchè è riuscito nella difficilissima impresa di migliorare un archetipo.
3°"Football Tape - Il pallone di scotch" Football tape” di Martì Guixè perchè rappresenta un'intuizione intelligente che fa leva sulla memoria collettiva.
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MUST - 03.2006
1 - Cosa significa per te creare?
Innanzitutto é una mia necessità. Sono per natura piuttosto introverso e mi riesce molto meglio comunicare con gli altri attraverso ciò che faccio piuttosto che affrontarli apertamente. Creare per me è una sorta di filtro protettivo che mi consente di partecipare al dibattito contemporaneo senza i vincoli e i problemi che molto spesso si creano tra le persone. Questo mi porta a lavorare in solitudine, ma in compenso anche ad avere una maggiore libertà di pensiero e di azione.
Creare poi, significa per me credere in un futuro migliore, avere la possibilità di raccontare storie attraverso gli oggetti, tentare di scardinare abitudini e atteggiamenti consolidati, scoprire i propri limiti, e soprattutto, regalare piccole emozioni un pò come fa l’attore con la platea. Ma vuol dire anche lavorare ventiquatto ore al giorno, soffrire finchè non si arriva a una soluzione convincente, cadere e rialzarsi cento, mille volte.
2 - Che significato ha oggi il design? Intendo il design legato all'attualità: quale è il ruolo del designer contemporaneo?
Il designer contemporaneo si deve confrontare più che negli anni passati, con la contraddizione di fondo del suo lavoro, da una parte lo spirito etico che lo anima, il tentativo di contribuire anche se in modo infinitesimale a migliorare il presente, dall’altra la chiara consapevolezza che i suoi oggetti si andranno comunque ad aggiungere alla già cospiqua mole di quelli esistenti con i relativi effetti sul nostro ecosistema già così compromesso.
Penso che oggi, come non mai, per superare questa dicotomia sia importante per il designer infondere nei suoi oggetti un forte valore comunicativo, cercare di parlare alle persone con il linguaggio della poesia, provocare emozioni. Oggi non basta più saper disegnare un oggetto di pura bellezza estetica, il prodotto industriale, deve prima di tutto condurre a riflettere.
Solo così, chi si occupa di design si può sentire parte attiva nel conseguimento di una realtà che più si avvicini ai nostri sogni.
3 - Salefino: genesi e obbiettivi
Salefino è il titolo di un libro curato da Joe Velluto, un gruppo di quattro giovani designers vicentini, in cui sono stati coinvolti, oltre al loro, altri tre studi di designers italiani tra cui Aroundesign alias Giulio Iachetti e Matteo Ragni, Lorenzo Damiani, ed io. Quattro realtà geograficamente lontane tra loro ma legate da una forte affinità elettiva.
La particolarità di questo volume sta nella sua interdisciplinarietà. Gli oggetti selezionati per la pubblicazione sono stati interpretati artisticamente dal fotografo Matteo Sandi. A loro volta gli scatti fotografici sono stati manipolati da interventi grafici degli stessi Joe Velluto. Il risultato é un libro inconsueto, in cui industrial design, graphic-design e fotografia convivono appassionatamente, mantenendosi volutamente al di fuori dai canoni ai quali ci hanno abituato le numerose pubblicazioni di settore in questi ultimi anni.
4 - Trasformazione. Che tipo di scelta realizzi sui materiali, che tipo di influenza ha sul tuo lavoro l'oggetto recuperato e rivisitato?
Il linea di massima preferisco utilizzare i materiali tecnologicamente “poveri” come il vetro, il legno, l’acciaio, i tessuti, la ceramica, le pietre. Inoltre, nei limiti del possibile, cerco di progettare oggetti monomaterici perchè costano meno e sono più facilmente riciclabili.
Per quanto riguarda l’influenza dell’oggetto rivisitato, posso dire di aver lavorato molto in questa direzione, fin dai primi anni novanta in cui ho dedicato molti mesi nel tentativo di coinvolgere le aziende affinchè prendessero coscienza delle enormi quantità di semilavorati di scarto che quotidianamente producevano e che poi abbandonavano nelle discariche. In quel periodo ho progettato diversi oggetti che utilizzavano esclusivamente semilavorati di scarto con lo scopo di dimostrare che anche un umilissimo pezzo di scarto può racchiudere in sé grandi potenzialità e che, se osservato con occhi più attenti, può ancora sorprenderci. Poi nel corso degli anni ho cercato di affinare questo linguaggio e di riproporre gli stessi concetti sotto altre forme. Sono nate così nuovi progetti che prevedevano anche l’utilizzo di oggetti già in produzione, come le bottiglie in plastica, i barattoli per le conserve, le cuffie in silicone da piscina ecc.ecc. alcuni dei quali si sono poi trasformati in reali prodotti.
Credo molto alla forza evocatrice degli oggetti, soprattutto in quest’epoca dove tutto viene consumato, eliminato e rimpiazzato con una facilità a dir poco disarmante e dove tutti noi stiamo velocemente perdendo il senso del valore delle cose.
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KULT - 01.2006
Potresti parlarmi del tuo rapporto con l'industria, ovvero, che opportunità
offre oggi l'industria a designer di valore che però non hanno ancora
un nome noto internazionalmente?
Per quello che é la mia personale esperienza, posso dire che le opportunità per chi non è conosciuto, non sono molte, e quando ci sono, le probabilità che il progetto arrivi a trasformarsi in prodotto sono piuttosto scarse. Tutto stà nel trovare l'azienda giusta, che creda nelle tue capacità e che soprattutto sappia instaurare con il progettista un rapporto paritario di dialogo, dove sussista una complice passione per la ricerca e che ci sia quindi la volontà di intraprendere un percorso comune senza troppe certezze.
Sei stato tra i partecipanti di Design alla coop, un'interessante iniziativa che mira a far entrare il buon design nella grande distribuzione. Vuoi parlarmi di questa esperienza?
Non posso che essere grato a Giulio Iachetti che è riuscito a raccogliere intorno a sè un gruppo di giovani designers italiani, tentando con grande caparbietà di portare il buon progetto negli scaffali dei supermarket Coop.
Quando due anni fa ci incontrammo per la prima volta tutti insieme alla Triennale di Milano non avevamo ancora focalizzato esattamente l’obbiettivo finale, in tutti però, era palpabile una forte volontà di progettare per la vita di tutti i giorni e non per la solita ristretta cerchia di appassionati del design. Ci piaceva l'idea di poter riportare il progetto su quelli che erano gli intenti originari di questa disciplina.
Da qui al decidere di fare qualcosa per la grande distribuzione il passo è stato breve.
Ci siamo messi a lavoro e successivamente ci siamo incontrati più volte, con umiltà, ognuno per raccontare le proprie idee, per consigliare e farsi consigliare. Una fantastica esperienza anche a livello umano che ha dato vita a una ventina di ottimi progetti, molti dei quali già pronti per affrontare la sfida della grande produzione.
Design alla coop mi sembra un tentativo di rendere democratico il design
sulla scorta di quanto già il Bauhaus propagandava. Purtroppo però le finalità di questo movimento si sono rivelate con il tempo fallimentari. Oggi il mondo del design a me pare un universo molto fashion and chic oriented (non tutto magari ma la gran parte!). Gli oggetti di design raggiungono prezzi molto alti e quella democratizzazione auspicata mi sembra ancora molto lontana? Mi piacerebbe sapere il tuo parere al riguardo?
La mia scelta di progettare per Coop è nata proprio dall’esigenza di ritrovare un contatto con la vita reale delle persone, con il quotidiano. Ho sempre pensato che progettare dovesse servire a questo, a donare a più persone possibile dei buoni oggetti per cercare di migliorare la loro vita quotidiana. Purtroppo il mondo del design sta andando in tutt’altra direzione. Oggi dettano legge le tendenze e si vende bene tutto ciò che in esse rientra. Basti pensare al mondo dell’arredo da bagno, non c’é più un designer che si occupa di progettare una vasca da bagno che non pesi meno di una tonnellata in pietra scavata a mano. Una famiglia a basso reddito, se vuole una nuova vasca da bagno dovrà accontentarsi del solito modello standard in fiberglass non disegnato, magari prodotto in oriente.
Cosa ne pensi del fatto che oggi il design ricerchi sempre più sinergie
con il mondo della moda?
Penso che dipenda dal fatto che il mercato del design ha subìto negli ultimi anni un’accelerazione esponenziale che obbliga le aziende a produrre novità sempre più velocemente. Oggi gli oggetti di design ( eccetto poche eccezioni) hanno una vita breve, brevissima, vengono bruciati nel giro di poche stagioni, sono diventati effimeri quasi quanto un capo di moda. E’ in questo senso che, secondo me, il design si avvicina alla moda. Fondamentalmente però restano due discipline distinte, per il fatto che storicamente nascono da presupposti ed esigenze diverse: l’obiettivo, o meglio l’utopia del designer di oggetti è progettare qualcosa che si avvicini il più possibile all’eterno, un pò come lo sono le sedute di Charls e Ray Eames o quelle di Arne Jacobsen. Il designer dell’abito, al contrario, sa a priori che la sua sarà una creazione effimera, potrà forse entrare nei musei, ma non potrà superare la stagione di vita sul mercato.
Credo che il rapporto tra moda e design possa essere paragonato più a uno scambio interdisciplinare piuttosto che a un vero e proprio connubio.
Qual è il tuo rapporto con i grandi maestri del design?
Ho un debito particolare con Achille Castiglioni che ritengo il più grande (e il più simpatico) designer italiano. Ho ammirato fin dai tempi della scuola le sue invenzioni cariche di ironia e intelligenza sul tema del ready-made come la lampada “Toio” piuttosto che le sedute “Mezzadro” o “Sella”, capolavori assoluti.
Ho poi una grande ammirazione per tutto il lavoro di Enzo Mari, in particolare per alcuni oggetti realizzati tra gli anni sessanta e settanta caratterizzati da una meticolosa ricerca sui giunti di unione fra le parti, come la scatola “flores” o il contenitore”Java” per Danese.
Come giudichi invece le nuove generazioni di designers?
I giovani progettisti oggi si trovano a operare in una situazione più complessa rispetto ai loro maestri del passato. Le scuole in cui si insegna industrial design si sono moltiplicate, come pure i neolaureati in questa disiplina, di conseguenza emergere diventa sempre più difficile. Ciò nonostante, i giovani con grandi capacità e molto motivati ci sono. C'é da dire che oggi, c’é una maggiore propensione a indagare in ambiti lasciati ancora scoperti dal progetto e questo porta spesso a ipotizzare oggetti tipologicamente “fuori” dai canoni abitualmente proposti dai magazine di settore. Ne consegue che quei giovani progettisti, portatori di nuova linfa vitale, autori di esemplari ricerche progettuali, riescono solo con grandi difficoltà a comunicare il loro talento.
Come definiresti il tuo stile progettuale e quali sono le finalità che in
genere ti prefiggi di raggiungere quando pensi ad un oggetto?
Non penso di avere uno stile progettuale, per me é prioritaro elaborare un concetto portante, un pensiero che sento l'esigenza di comunicare. Non cerco mai di forzare il progetto su dei binari predeterminati, preferisco assecondare la naturale vocazione di quel concetto, un po' come fa la levatrice con il bambino che sta per nascere.
Ogni progetto ha una sua storia, spesso, nasce dall’osservare con curiosità gli aspetti più ordinari della nostra esistenza come è successo con il tavolino Cabriolet per Fontana Arte o per il tappetino Mat Walk per Droog Design, in cui una gestualità viene assecondata e istituzionalizzata con il progetto. Altre volte nasce da una presa di posizione verso alcuni aspetti del sociale, come nella cartolina “Watercard”, un personale atto di protesta dopo aver letto sul giornale dei molti eventi mediatici organizzati per raccogliere fondi per i paesi più poveri che vedevano disperdere il ricavato in mille passaggi di mano al punto che il fine iniziale veniva disatteso.
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